Esistono specie animali più “importanti” di altre?

Qualche decennio fa, negli anni Sessanta del secolo scorso, Robert Paine, uno zoologo americano, cominciò a studiare le pozze di scogliera nello Stato di Washington, lungo la costa americana dell’oceano Pacifico.

Da un po’ di tempo gli balenava in testa un’idea: esistono specie animali più “importanti” di altre? Certamente ci sono prede e predatori, ma come si influenzano a vicenda?

Per un mondo scientifico che si occupava soprattutto di riconoscere e dare un nome alle diverse specie, una ricerca di questo tipo era qualcosa di inedito.

Tutti gli animali e le piante hanno un ruolo in Natura. Ma alcuni sono più importanti di altri. Ecco perché.

1. LA SCOPERTA DELLE SPECIE CHIAVE

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Tornando alle coste rocciose, quando la marea dell’oceano si ritirava, tra gli scogli rimanevano grandi pozze, anche più grandi di una vasca da bagno, che funzionavano come mondi in miniatura.

In pratica erano acquari già allestiti in cui condurre esperimenti. P

aine e i suoi studenti osservarono che le stelle marine violacee (Pisaster ochraceus, foto sotto), grandi invertebrati predatori che si trovano in questi habitat, si nutrivano soprattutto di cozze (molluschi bivalvi), mangiandone in quantità nel piccolo spazio della pozza.

Quando le stelle marine venivano rimosse dall’area, come parte dell’esperimento, la popolazione dei bivalvi aumentava a dismisura, fino a rivestire il fondale, facendo scomparire tutte le altre specie, tra cui le preziose alghe, che sostenevano la vita nelle pozze.

Paine si aspettava questo risultato, ma la sorpresa venne subito dopo: togliendo altre specie, come granchi e altri invertebrati, si ottenevano variazioni limitate.

La biodiversità di quell’habitat in miniatura dipendeva quindi da una sola specie, che teneva sotto controllo le ingombranti cozze, permettendo agli altri organismi di prosperare. 

Fu così che nacque l’idea delle “specie chiave”, che sono quelle che consentono a un ecosistema di funzionare correttamente.

In pratica, tutti gli animali e le piante hanno un ruolo nella complessa rete che collega gli organismi che frequentano un habitat, ma alcuni sono più importanti di altri. 

Se queste specie che hanno un ruolo chiave scompaiono, il sistema perde gran parte della sua efficacia e le conseguenze negative si ripercuotono su tutti gli organismi che l’abitano e, talvolta, anche su di noi.

2. IN CIMA ALLA CATENA ALIMENTARE

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I predatori, soprattutto quelli più grandi, al vertice delle reti alimentari, hanno spesso un ruolo importante come specie chiave.

In molte aree del pianeta questi animali sono stati cacciati fino all’estinzione perché la loro è una presenza “ingombrante”, non sempre compatibile con le attività umane.

I predatori di vertice devono essere necessariamente poco numerosi perché, se fossero troppo abbondanti, sconvolgerebbero l’intero ecosistema. Per sostenere una sola tigre adulta (foto sotto), per esempio, occorrono nella sua area circa 500 cervi, le sue prede di riferimento.

Di media uno di questi felidi caccia con successo una o due volte alla settimana e consuma almeno 50 grandi erbivori in un anno.

Per mantenere tutti questi animali servono quindi decine di chilometri quadrati di foresta per ogni tigre, la quale tiene sotto controllo i cervi che, se troppo numerosi, potrebbero danneggiare la vegetazione, divorando molte delle piante del sottobosco.

Un caso studio veramente illuminante riguarda i lupi americani nel Parco di Yellowstone, i quali furono cacciati fino all’estinzione negli anni Trenta del secolo scorso.

Una quarantina di questi carnivori venne tuttavia reintrodotta negli anni Novanta e il loro impatto all’interno dell’area protetta si è fatto subito sentire, producendo effetti a cascata su molte popolazioni animali e non solo sulle prede. I lupi hanno cominciato ad attaccare i cervi canadesi (foto sotto), i wapiti, i grandi erbivori più diffusi.

Dove i lupi cacciavano intensamente, la vegetazione naturale, che era stata in parte compromessa dall’eccessiva densità di erbivori, ha ripreso lentamente il terreno.

Il rinnovamento del manto forestale ha richiamato di conseguenza un maggior numero di uccelli, e in breve sono aumentati anche i castori, che utilizzavano proprio i rami degli alberi – adesso più abbondanti – per costruire le dighe nei fiumi, creando a loro volta un ambiente ideale per lontre, ratti muschiati, pesci e anatre.

Anche i coyote (foto sotto), cugini dei lupi, che prima dell’introduzione erano abbastanza numerosi, hanno ridotto il loro numero, favorendo di conseguenza un aumento dei piccoli roditori, che a loro volta hanno richiamato una maggiore diversità dei carnivori.

Sorprendentemente, nelle aree interessate dall’azione dei lupi anche i fiumi hanno cominciato lentamente a cambiare. Con il consolidarsi della vegetazione locale, le sponde dei corsi d’acqua si sono rinforzate, i canali sono diventati più stretti e più profondi, cambiando parzialmente la loro morfologia.

Nessuno, neppure gli scienziati, aveva previsto interazioni di questa portata, in quello che è stato un esperimento su larga scala. Il fatto che l’area di studio si trovasse negli Stati Uniti, in un’area ben conosciuta, ha semplificato la raccolta di informazioni, ma un numero crescente di indizi sembra indicare che molti ecosistemi siano fortemente “controllati” dall’alto, cioè dalla presenza di quei pochi superpredatori.

Nonostante i numeri esigui, questi animali esercitano un’azione benefica su più livelli: non eliminano soltanto gli individui malati e più deboli, contribuendo a un miglioramento generale della salute della popolazione delle prede, ma spesso rendono le prede più sospettose, costringendole a spostarsi, e riducendo l’impatto che gli erbivori hanno sulla vegetazione.

A volte, quindi, basta la sola presenza per indurre cambiamenti, senza che ci sia un’azione diretta dei predatori con attacchi ad altri animali. In modo simile a quanto visto con i lupi, gli scienziati in Australia hanno osservato che i grandi squali tigre (Galeocerdo cuvier, foto sotto) sono i “guardiani” delle praterie sottomarine, così importanti per molti animali marini.

Quando questi pesci predatori pattugliano regolarmente i fondali, le tartarughe marine, che sono spesso catturate dagli squali, si fanno più prudenti e sono costrette a pascolare in una regione molto più ampia. Così la vegetazione sommersa non viene troppo danneggiata e ha modo di riprendersi dopo il pasto dei rettili marini.

3. COSTRUTTORI DI BIODIVERSITÀ

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Noi uomini, così come moltissimi scienziati, abbiamo una predilezione per i predatori, ma anche gli erbivori possono avere un ruolo essenziale negli ecosistemi.

L’umile castoro americano (foto sotto), prima citato, è un esempio perfetto.

Questi roditori acquatici costruiscono con rami da loro tagliati opere idrauliche talmente efficaci e raffinate da sembrare frutto della mano dell’uomo.

Spinti dalla necessità di creare una tana sicura, con accesso sommerso in uno specchio d’acqua, questi animali fanno le cose veramente in grande: le loro opere possono misurare centinaia di metri di lunghezza e sono visibili su Google Earth.

È questo il motivo per cui i castori sono chiamati “costruttori di nicchia” o “ingegneri dell’ecosistema”. Le zone umide da loro create consentono ad altre specie di animali e piante di prosperare.

Cambiando continente, per arrivare nelle grandi pianure dell’Africa Orientale (foto sotto), il luogo che ospita la fauna terrestre più spettacolare al mondo, si vede che gli effetti più importanti sull’ecosistema si devono a poche specie di erbivori, importanti per numero e massa. Gli elefanti africani, come ci si può attendere, sono il vero “rullo compressore della savana”.

Si adattano infatti a consumare ogni tipo di materiale vegetale, dai tuberi e radici fino alle gemme e addirittura la corteccia e i rami secchi degli alberi. Nei periodi di carestia non esitano ad abbattere le piante per raggiungere i rami più gustosi in alto, e sono quindi tra gli animali che modificano più profondamente l’habitat in cui vivono.

Gestire la fame degli elefanti è uno dei maggiori problemi delle aree protette in cui questi animali prosperano. Dove non hanno modo di migrare, possono causare gravi danni alle piante della savana.

Tra tutte le splendide antilopi che si possono osservare in questa porzione di Africa, nessuna ha un impatto più profondo sulle grandi pianure degli gnu (foto sotto), che danno vita a mandrie gigantesche con decine di migliaia di individui, alle quali si uniscono volentieri anche le zebre. Si muovono in massa, rasando l’erba con tale efficacia da trasformare i pascoli in qualcosa di simile a un campo da calcio.

Con la loro attività gli gnu contribuiscono anche a fertilizzare il terreno con quintali di escrementi per ettaro, riducono il rischio di incendi e preparano la terra per la nuova stagione, favorendo anche la crescita di alberi radi, che attirano insetti, uccelli e molti altri mammiferi, come le giraffe.

In questi luoghi, anche le termiti, gli insetti sociali che danno vita a gigantesche colonie, sono una specie chiave. Grazie a una rete di tunnel di fango e passaggi sotterranei, le termiti raccolgono quantità enormi di legno morto presente sul terreno, oltre a foglie e rametti.

Non mangiano però il materiale vegetale, che è poco nutriente e non digeribile: il legno serve loro come base per far crescere un microscopico fungo (genere Termitomyces, foto sotto) che si sviluppa solo nei termitai ed è il loro cibo. Nelle savane i termitai sono dappertutto e contribuiscono a riciclare tutti i residui vegetali.

Prima abbiamo parlato di elefanti ma, in conclusione, la questione delle specie chiave non ha a che fare necessariamente con la taglia. I piccolissimi contano quanto i grandi, se la loro attività ha un impatto profondo: sono le relazioni tra le specie che fanno la differenza.

4. TUTTO COMINCIA DALLE PIANTE

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Di piante si parla sempre poco, ma anche tra queste si contano quelle che possono essere definite specie chiave.

Gli alberi di mangrovia (foto sotto), per esempio, svolgono un ruolo fondamentale ai tropici, rafforzando le coste e riducendo l’erosione.

Forniscono anche un rifugio sicuro e un’area di alimentazione per i piccoli pesci tra le loro radici, che scendono attraverso l’acqua bassa.

Alle minuscole alghe unicellulari zooxantelle, invece, si devono le grandiose barriere coralline tropicali.

I grandi ventagli delle madrepore e di altri coralli tropicali nascondono, nei tessuti dei minuscoli polipi che le hanno costruite, grandi colonie di queste microalghe, che di giorno fanno la fotosintesi, producendo materiale organico in eccesso che è utilizzato dal corallo come nutrimento.

Di notte, invece, i coralli estroflettono i loro tentacoli per catturare le minuscole particelle alimentari che fluttuano nell’acqua. In estrema sintesi i coralli sono piante di giorno e animali di notte.

Questa simbiosi, che è una delle più importanti della vita sul nostro pianeta, spiega la crescita e la diffusione delle barriere coralline nei mari poco profondi dei tropici.

Purtroppo, quando l’acqua si scalda troppo per effetto dei cambiamenti climatici, le zooxantelle (foto sotto) sono aggredite da batteri che si riproducono senza controllo.

E senza il nutrimento anche i coralli muoiono, trasformandosi in uno sterile deserto bianco di scheletri calcarei.





5. CONOSCERE PER SALVARE

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Robert Paine, con le sue stelle marine predatrici, fu uno dei primi a indagare il tema delle specie chiave, ma molti altri scienziati lo seguirono negli anni successivi.

Adesso che stiamo imparando a conoscere meglio questi rapporti tra gli organismi, come possiamo usare queste informazioni?

Sicuramente per proteggere in modo più efficace i luoghi meglio conservati del mondo, ma anche per “aggiustare” quelli che sono stati degradati dalle attività umane.

Lavorare sulle specie chiave è sicuramente il primo passo per ricostruire un’area naturale seriamente danneggiata.

Un’azione su larga scala di questo tipo è stata portata avanti in Mozambico, nel Parco nazionale di Gorongosa (foto sopra e sotto), privato di gran parte dei suoi animali durante la guerra civile che ha devastato il Paese africano alla fine del secolo scorso.

Grazie all’entusiasmo e al supporto di un benefattore americano, Gregory Carr, e all’aiuto di molti scienziati coinvolti, del governo del Mozambico e dei locali guardaparco, questo luogo ha fatto enormi progressi negli ultimi 10 anni (2010-2020).

La popolazione di grandi animali, che era quasi scomparsa, ha oggi recuperato e conta decine di migliaia di individui, oltre a sostenere gli abitanti con attività di studio e supporto al crescente turismo.

Forse questa è la più bella storia di ricostruzione di un’area naturale in Africa: dall’inferno al paradiso in poco più di un decennio.








Note

E LE ZANZARE... A CHE COSA SERVONO?

Piante e animali non devono per forza “servire” a qualcosa. Se esistono, vuol dire che hanno trovato un mezzo di sostentamento (svilupparsi in acqua e succhiare il sangue, nel caso delle zanzare) non troppo sfruttato da altre specie.

La vita delle zanzare (foto) è quindi legata a quella di altri organismi: rubano il sangue ad altri animali, ma le loro larve svolgono un’azione di “filtraggio” delle acque e sono il nutrimento di molti organismi acquatici, mentre gli adulti diventano il cibo dei predatori insettivori.

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