Farmaci in Italia: tra eccessi, rischi e il futuro della terapia medica

Se è vero che i farmaci sono utili o addirittura indispensabili, è altrettanto vero che nei Paesi occidentali si esagera ad assumerne, rischiando che facciano più male che bene.

Non siamo esenti da questa cattiva abitudine noi italiani, che per di più tendiamo a prescriverceli da noi, saltando il medico.

Nel corso del 2022 sei italiani su dieci hanno ricevuto una prescrizione per un farmaco, mentre la spesa farmaceutica nazionale si è attestata a 34,1 miliardi di euro: una cifra enorme, che include anche i farmaci passati dal Sistema sanitario.

I dati, che vengono dal rapporto L’uso dei farmaci in Italia pubblicato dall’Agenzia italiana del farmaco (AIFA), segnalano dunque la grande propensione del nostro Paese a fare affidamento a medicinali di ogni tipo.

In particolare, consumiamo sempre più farmaci ben lontani dall’essere salvavita, ma pensati più semplicemente per migliorarla: antidolorifici, integratori o prodotti per il benessere intestinale che, complice la pubblicità, ci promettono di sopportare meglio i fastidi di tutti i giorni.

1. Il paracetamolo vince su tutti. Ma che cos’è un medicinale e come nasce la farmacologia?

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Così ecco che lo stesso rapporto ci mostra che tra i dieci farmaci per i quali si spende di più in farmacia ci sono il paracetamolo (cioè l’intramontabile Tachipirina e i relativi generici), vari antinfiammatori e antidolorifici, la vitamina D e i farmaci contro il reflusso.

Soltanto due (uno per l’insufficienza cardiaca e un antibiotico) sono di vitale importanza. Anche gli integratori alimentari sono paradigmatici di questa tendenza.

Vengono usati spesso senza criterio, ma in realtà dovrebbero essere impiegati soltanto per integrare reali carenze nutritive non colmabili con una dieta sana. Sono farmaci a tutti gli effetti e possano causare interazioni con altre molecole.

Ma che cos’è un medicinale? Un farmaco è una sostanza dotata di potere attivo sull’organismo capace di contrastare le patologie. Tuttavia, crea inevitabilmente anche effetti avversi. Il principio base della farmacologia è che ogni terapia sia prescritta valutando un rapporto rischio-beneficio.

Ogni medicinale, cioè, non deve causare più danni di quelli prodotti dalla patologia per cui viene impiegato. La stessa sostanza può essere benefica o velenosa a seconda della dose impiegata, ma anche del suo utilizzo, che deve essere sempre improntato a saggezza.

La pratica clinica lo dimostra: lo sapevate ad esempio che i pazienti affetti da fibrillazione atriale, una comune aritmia, sono trattati con il veleno per topi?

Per prevenire il rischio di trombosi, elevato in questi pazienti, vengono infatti somministrati loro anticoagulanti che sono impiegati, a dosaggi diversi in proporzione al peso corporeo, anche per uccidere i roditori nelle nostre cantine. Oppure c’è la nitroglicerina: nota sostanza esplosiva, a piccole dosi è fondamentale nella terapia dell’angina pectoris.

Come nasce la farmacologia? Alle origini, i principi attivi venivano estratti dalle piante partendo dall’osservazione e facendo tentativi di assunzione. «Con l’Ottocento e il Novecento le cose cambiano» scrive Thomas Hager in Homo Pharmacus. Dieci farmaci che hanno scritto la storia della medicina (Codice Edizioni), «e la farmacologia diventa un’industria: i medicinali iniziano a essere creati combinando elementi chimici e molecole. Nel XIX secolo i medici hanno a disposizione una ventina di farmaci».

Oggi in farmacia ci sono 14mila diverse confezioni di medicine.

2. Farmaci sempre più biologici. Conta anche la psiche

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Peraltro ai giorni nostri la maggior parte dei farmaci approvati non sono più creati chimicamente, ma sono di origine biologica: non nascono cioè dalla giustapposizione di atomi e molecole, ma da organismi già esistenti o da cellule umane o animali.

Solo per fare un esempio banale, i probiotici sono batteri “buoni” utili all’intestino, mentre i vaccini sono virus modificati.

Sono farmaci di origine biologica anche gli emoderivati, sostanze estratte dal sangue quali, ad esempio, i fattori della coagulazione: si tratta di proteine del sangue che contribuiscono alla sua coagulazione in presenza di ferite. Estratti e trattati in laboratorio, sono una potente cura per i pazienti affetti da emofilia. E poi ci sono i farmaci biotecnologici quali gli anticorpi monoclonali.

Un’altra classificazione riguarda il modo in cui vanno assunti: così, accanto alle compresse, troviamo le capsule, le bustine da sciogliere in acqua, le pomate, gli sciroppi, le supposte, gli spray nasali, le compresse sublinguali, i cerotti medicati, le iniezioni, le infusioni tramite flebo...

Ogni via di assunzione ha un impatto diverso sull’efficacia: ad esempio, un farmaco in vena entra in azione più velocemente rispetto a uno che viene deglutito e poi assorbito dallo stomaco e dall’intestino. D’altra parte, alcuni principi attivi non funzionerebbero se assunti per bocca: gli anticorpi monoclonali, ad esempio, possono essere assorbiti solo se iniettati sottocute o tramite flebo.

Di certo, però, l’efficacia di una terapia ha sempre in sé una parte di effetto placebo. Un’iniezione di una sostanza farmacologicamente inerte è più efficace di una compressa contenente la stessa sostanza. La ragione è che tendiamo ad associare una siringa a una maggior potenza del farmaco che assumiamo.

Alcuni studi dimostrano che persino il numero delle compresse somministrate ha influenza sulla nostra percezione di stare meglio: prendere due pillole da 50 milligrammi ci fa sentire più “curati” rispetto ad assumerne solo una da 100.

L’effetto è evidente con i farmaci equivalenti, quelli un tempo definiti “generici”: identici a quelli di marca, sono meno costosi in quanto prodotti a brevetto scaduto. Per essere equivalente un farmaco deve contenere lo stesso principio attivo nello stesso dosaggio e deve raggiungere un’analoga concentrazione a livello del sangue. 

Eppure, molti pazienti, specialmente anziani, sono convinti che i generici “funzionino meno” di quelli di marca, tanto da riportare al medico sintomi associati al cambio di farmaco. Si tratta solo di suggestione: è il cosiddetto effetto nocebo, in pratica l’opposto del placebo.

3. Li usiamo troppo e male. No al fai da te

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Nei Paesi occidentali, tra i farmaci consumati in modo meno appropriato ci sono le benzodiazepine, cioè i più comuni ansiolitici: ciò è legato all’aumento dello stress e dell’insonnia.

In questo il COVID ha avuto un peso notevole. Talvolta gli ansiolitici sono eccessivamente prescritti da alcuni medici di base senza un consulto psichiatrico, in altri casi si è evidenziata la tendenza di qualche farmacista a venderli senza la necessaria ricetta.

Il problema è che le benzodiazepine danno assuefazione e la conseguenza è che ne occorrono dosi sempre più alte per mantenere la stessa efficacia nel tempo.

Anche gli antibiotici sono oggetto di abuso e non si salva nemmeno il farmaco più venduto in assoluto in Italia, il paracetamolo, che viene spesso usato male: peccato che il suo abuso possa causare gravi danni al fegato.

No al fai da te! L’automedicazione può diventare pericolosa. Occorre sempre il parere del medico. No quindi all’assunzione eccessiva, ma anche a quella disattenta. I farmaci sono efficaci quando li prendiamo nei modi e tempi indicati dal medico.

Spesso le conseguenze più gravi derivano da una mancata aderenza alla terapia. Succede, ad esempio, negli anziani che assumono più compresse al giorno: il rischio di dimenticare una dose o di prenderne in eccesso è elevato.

O quando assumiamo un antibiotico che il medico ci ha prescritto per dieci giorni e noi interrompiamo la terapia non appena i sintomi regrediscono, esponendoci al rischio di una ricomparsa dell’infezione.

O con gli antidepressivi, che vanno assunti giornalmente ma che iniziano a dare benefici solo dopo 2-3 settimane dall’inizio della terapia. Non notando un giovamento immediato ma solo effetti collaterali, molti si scoraggiano e smettono di prenderli.

Solo una corretta educazione sanitaria può portarci a un uso consapevole dei farmaci, così da ottenere il massimo con i minori rischi.

4. Cinque consigli sui farmaci

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- Un farmaco scaduto è pericoloso?
No, semplicemente non è più efficace. La data di scadenza indica che le prove effettuate hanno dimostrato che fino a quella data il farmaco, conservato in modo ottimale, non si modifica.

- Come si conservano?
I farmaci vanno mantenuti a temperatura ambiente (tranne quelli che devono andare in frigorifero), in luoghi asciutti e senza sbalzi di temperatura, lontano da calore e luce e sempre nella confezione originale. Alcuni possono scadere una volta aperti: le pomate, per esempio, durano circa 3-6 mesi dall’apertura.

- Tutte le pastiglie possono essere divise in due?
Solo quelle con l’incisione guida, ma la metà avanzata può essere usata al massimo entro 48 ore. Non vanno divise le compresse gastroresistenti e le capsule.

- Le compresse sublinguali possono essere deglutite?
No, perché non funzionerebbero: la via sublinguale si utilizza per evitare che il principio attivo venga distrutto dai succhi gastrici e dagli enzimi digestivi. Inoltre i farmaci sublinguali agiscono più velocemente.

- Meglio assumere i farmaci a stomaco pieno o vuoto?
La maggioranza dei farmaci va assunta a stomaco vuoto per garantire il maggiore assorbimento. Fanno eccezione gli antinfiammatori non steroidei, l’acido acetilsalicilico (l’aspirina) e gli antibiotici, che potrebbero danneggiare la mucosa dello stomaco.

 





5. Come saranno i farmaci del futuro? Come nasce un farmaco?

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- Come saranno i farmaci del futuro?
Oggi alcune forme di cancro sono più curabili grazie alle terapie a bersaglio molecolare, capaci di intercettare gli specifici meccanismi alla base di ogni tipologia di tumore.
Sono farmaci che si affiancano alle terapie tradizionali, come la chemio e la radioterapia, che invece agiscono in modo indiscriminato danneggiando inevitabilmente anche le cellule sane. È un esempio di come la tecnologia applicata ai farmaci si sta evolvendo.
Un altro caso è quello delle terapie geniche, che grazie a virus inattivi consentono di inoculare nell’organismo un gene la cui mancanza è causa di patologie gravissime.

Sono da poco state approvate terapie di questo tipo, che forse eviteranno ai pazienti con emofilia di sottoporsi alle regolari infusioni ora necessarie per prevenire i sanguinamenti. Il problema è che sono ancora costose, perché richiedono tempo e tecnologie per lavorare su geni, vettori virali e colture cellulari.
Ci sono anche nuovissime terapie CAR-T impiegate in alcune forme aggressive di linfomi. Il processo per realizzarle è complesso: si estraggono dal sangue del paziente i linfociti, una popolazione di globuli bianchi essenziali per il sistema immunitario, li si invia a laboratori specializzati dove sono ingegnerizzati e, circa un mese dopo, tornano all’ospedale in cui il paziente è ricoverato per essere reiniettati.
I costi sono difficili da sostenere persino per i sistemi sanitari come il nostro, specie in un contesto di invecchiamento della popolazione e di aumento di patologie gravi correlate anche all’età.

 

- Come nasce un farmaco?
Per trattare una malattia occorre capire quali sostanze chimiche sono coinvolte. Trovata quella bloccando la quale si ottiene una regressione della patologia o l’attenuazione dei sintomi, si cerca una molecola in grado di legarsi a essa, ottenendo così l’effetto terapeutico.
Per farlo si scandagliano i composti chimici già esistenti finché si trova il più adatto, oppure lo si progetta da zero.

Poi il farmaco va studiato per valutarne sicurezza ed efficacia: nella prima fase, che dura fino a 3 anni, è testato su cellule di laboratorio e animali per analizzare l’assorbimento, come si distribuisce nel corpo, come si elimina e come i tessuti reagiscono.
Poi lo si sperimenta su volontari sani o pazienti che non rispondono più alle terapie disponibili per due anni. Quando il farmaco ha dimostrato di essere sicuro ed efficace deve essere autorizzato al commercio: a livello europeo dall’EMA e in Italia dall’AIFA. Purtroppo, non sempre fila tutto liscio e si deve ricominciare tutto daccapo.








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