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Storia (e chimica) del colore: dal body painting ai pigmenti fluorescenti del ’900

Il cielo incombe su Giuda che tradisce il maestro, e il blu “oltremare” rende l’etere partecipe del dramma che si sta consumando.

Siamo nella Cappella degli Scrovegni, a Padova, di fronte al dipinto murale di Giotto.

Quel blu che avvolge la scena del Vangelo ha una sua storia, artistica ma anche mercantile e soprattutto chimica; deriva da un minerale importato “di là dal mare”, e deve il colore alla sua particolarissima struttura microscopica che solo la scienza moderna è riuscita a spiegare, più di seicento anni dopo.

Il legame fra chimica e pittura non è nato con Giotto. Si perde nella notte dei tempi, quando i nostri antenati intrapresero con le sostanze colorate un cammino destinato a farsi sempre più complesso e consapevole.

Dal ritrovamento di attrezzi per la macinazione dei pigmenti sappiamo che già 300mila anni fa l’uomo faceva uso del minerale ematite, un ossido di ferro, rosso se macinato. Lo usava per dipingere il proprio corpo.

Forse la pratica del body painting è addirittura antecedente: il carbone, ottimo come pigmento nero, è contemporaneo alla scoperta del fuoco, che data a circa 800 mila- 1 milione di anni fa.

Oggi scopriremo la storia (e chimica) del colore, dal body painting della preistoria ai pigmenti fluorescenti del ’900.

 

PER SAPERNE DI PIÙ: Adriano Zecchina, Alchimie nell’arte – La chimica e l’evoluzione della pittura, Zanichelli (2012).

 

Curiosità: NANOTECH RINASCIMENTALE
Nelle botteghe dei pittori del Rinascimento, i garzoni macinavano i minerali per ottenere polveri finissime. L’operazione era delicata, poiché la tonalità del colore dipendeva dallo spessore della polvere ottenuta.
Oggi sappiamo perché: in quei mortai, si potevano ottenere particelle di circa mezzo micron (0,5 millesimi di mm), confrontabili con la lunghezza d’onda della luce visibile, con la quale potevano perciò interferire.
Quei garzoni, senza saperlo, furono precursori della nanotecnologia.

1. Body painting

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Il legame fra chimica e pittura non è nato con Giotto.

Si perde nella notte dei tempi, quando i nostri antenati intrapresero con le sostanze colorate un cammino destinato a farsi sempre più complesso e consapevole.

Dal ritrovamento di attrezzi per la macinazione dei pigmenti sappiamo che già 300mila anni fa l’uomo faceva uso del minerale ematite, un ossido di ferro, rosso se macinato.

Lo usava per dipingere il proprio corpo. Forse la pratica del bodypainting è addirittura antecedente: il carbone, ottimo come pigmento nero, è contemporaneo alla scoperta del fuoco, che data a circa 800 mila -1 milione di anni fa.

I pittori del Paleolitico – che hanno lasciato i loro capolavori nella grotta Chauvet in Francia, in quella d’Altamira in Spagna e altrove – usavano, però, solo 3 pigmenti: nero (carbone), rosso d’ematite e ocra (ossido idrato di ferro).

Per l’azzurro e il verde, è stato necessario aspettare lo sviluppo dell’alchimia. Questa disciplina, che talvolta si perdeva in elucubrazioni fantasiose, nel corso dei millenni accumulò una vasta serie di conoscenze empiriche sorprendenti.

Tra le applicazioni pittoriche si può citare anche un rosso che ebbe a lungo successo. Veniva prodotto macinando il cinabro, un minerale composto da solfuro di mercurio. A causa delle impurità il pigmento che si otteneva era di un rosso sporco.

Complesse procedure di purificazione portarono poi qualche miglioramento, ma un balzo in avanti avvenne solo con la sintesi da mercurio e zolfo, scoperta dagli alchimisti arabi. Ottenuto da reagenti puri, il pigmento (vermiglione) era così brillante che piacque ai pittori egizi e poi ancora a lungo.

Gli Egizi facevano largo ricorso ai preparati alchemici. Producevano la biacca, un carbonato di piombo, lasciando in vasi di terracotta striscioline del metallo impastate con letame e aceto. Oggi possiamo spiegare il meccanismo di questa “ricetta”.

L’aceto trasformava il piombo in acetato, mentre l’anidride carbonica sviluppata dalla fermentazione del letame portava al prodotto finale. Se la biacca veniva scaldata a secco in fornaci adatte, si ottenevano due colori nuovi.

A temperatura moderata si formava il litargirio, un ossido di piombo giallo. A temperatura più elevata il minio, un altro ossido di piombo, ma con una tonalità di rosso.

2. Dall'Afghanistan

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Riguardo al blu, gli Egizi lo ricavavano in due modi:

1) dalla fusione di sabbia bianca, cioè silice, con la malachite (un carbonato di rame) e gesso (solfato di calcio); e
2) dai lapislazzuli provenienti dall’Afghanistan.

Entrambi questi blu sono arrivati sino agli artisti del Medioevo, tra cui Giotto, e oltre. Ma è stato soprattutto il secondo, definito anche “oltremare”, o “blu ultramarino”, a destare ammirazione nel corso dei secoli.

Il pittore Cennino Cennini, all’inizio del XV secolo, nel suo Libro dell’Arte lo racconta così: “Azzurro oltremarino si è un colore nobile, bello, perfettissimo oltre tutti i colori”.

Oggi sappiamo che il blu del lapislazzuli è dovuto a una particolarità della lazurite che contiene. No, non è un errore d’ortografia, come scrivere l’aradio invece che la radio. 

Esiste effettivamente anche l’azzurrite, pure usata dai pittori, che deve il blu alla presenza di rame.

La lazurite, come lo stesso “lapislazzuli”, trae il nome dal latino medievale: lapis lazuli, pietra di lazulum, perché in persiano si chiamava lazavard quel materiale estratto dalle cave.

Nella lazurite il colore non è dovuto a un elemento metallico, ma a qualcosa di abbastanza particolare: uno “ione-radicale” costituito da tre atomi di zolfo.

Questo composto ha una particolare configurazione elettronica (ha un elettrone “libero”, cioè disponibile per i legami chimici) che lo rende unico, perché lo porta ad assorbire la luce intensamente a una frequenza molto precisa: ha dunque un colore forte e purissimo, senza sovrapposizioni di tonalità vicine.

3. A Venezia

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Un nuovo blu artificiale si diffuse nel Rinascimento fra i pittori veneti, grazie allo sviluppo dell’arte vetraria in laguna.

Fu lo smaltino, ottenuto macinando vetro colorato da composti di cobalto.

Si trova anche nel Bacco e Arianna di Tiziano, dipinto intorno al 1520, che dispiega un numero straordinario di pigmenti: i tre blu azzurrite, lapislazzuli e appunto smaltino.

E poi, ancora, gialli a base di piombo (come il giallo Napoli, un antimoniato) e d’arsenico (dal minerale orpimento); i verdi al rame, cioè la malachite (un carbonato) e il verderame ottenuto per azione dell’aceto sul metallo, oltre alle terre verdi contenenti ferro; i rossi vermiglione e cremisi estratto da insetti.

Insomma, un vero e proprio laboratorio di chimica. Per non parlare del proverbiale rosso, che Tiziano sfoderava in particolare nei ritratti, miscelando le varie ocre (ossidi di ferro).

Una nuova era si aprì alla fine del ’700, quando l’antica alchimia fu gradualmente sostituita dalla moderna chimica. E tra questa nuova scienza e la pittura si stabilì subito un rapporto strettissimo.

Per dipingere il quadro In barca sulla Senna, nel 1880 Renoir usò pochi pigmenti oltre al bianco.

E tutti, tranne i rossi, rientrano in questo nuovo filone: blu cobalto (un alluminato), verde di Guignet (ossido di cromo), i cromati di piombo detti giallo cromo e arancio cromo, giallo limone (cromato di stronzio).

I pittori dell’Ottocento ebbero a disposizione nuovi pigmenti con colori e tonalità prima sconosciuti. Alcuni di questi, per intensità e purezza, non avevano rivali: pensiamo al giallo arancio dei cromati e ai verdi degli acetoarseniati di rame.

Le innovazioni prodotte dalla scienza chimica permisero una manipolazione della luce senza precedenti: non potevano non influenzare la creatività degli artisti e stimolare le loro richieste all’industria.

Creatività scientifica e creatività artistica si sono influenzate a vicenda. In pratica, l’industria chimica e l’Impressionismo sono nati insieme.

Per fare un confronto con il passato, «l’uso fatto da Turner, nei suoi tramonti sul mare, dei colori giallo arancio è una conseguenza diretta della presenza dei nuovi pigmenti di sintesi sul mercato». Le sue vedute veneziane superano, perciò, in luminosità quelle del Canaletto.

4. Con cautela

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I nuovi pigmenti avevano anche un altro vantaggio: costavano relativamente poco.

E quindi si potevano usare più comodamente e in quantità maggiori. Così gli artisti cominciarono a sviluppare le pennellate in rilievo, la cosiddetta pittura materica.

Non solo. La bottega del pittore perse la sua caratteristica di laboratorio per la lavorazione dei pigmenti. E con la disponibilità di colori già preparati in tubetti si è potuta sviluppare la pittura all’aria aperta.

Ecco dunque diffondersi la classica figura del vedutista con il cavalletto in mezzo alla natura. La storia non è però tutta idilliaca, purtroppo. Molti pigmenti inorganici frutto della chimica sintetica dell’Ottocento erano tossici.

Tra questi, i cromati usati da Van Gogh nei famosi girasoli ; il solfuro di cadmio, altro giallo usato dallo stesso Van Gogh in alcuni autoritratti

Il verde smeraldo, che contiene arsenico, usato da Cézanne; il solfoseleniuro di cadmio, aranciato, che si trova nella Stanza rossa dipinta da Matisse nel 1908. Oggi la scienza ha messo in relazione le infermità di alcuni di questi pittori con l’uso di pigmenti tossici.




5. Luci e molecole

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In realtà anche i pigmenti antichi a volte erano tossici. Basti pensare a realgar e orpimento, solfuri di arsenico, in uso sin dai tempi degli Egizi.
I Romani conoscevano molto bene la loro tossicità.
Solo con l’avvento della chimica organica, nel Novecento, molti di questi pigmenti sono stati sostituiti con sostanze non tossiche opportunamente progettate.
E ora? Dopo il 2000, si può andare oltre la chimica? L’arte esplora nuove strade, nuove forme espressive, nuove idee. Ma anche la chimica progredisce, sviluppa nuovi processi e nuovi materiali.
Come quelli luminescenti, che si caricano di energia quando vengono irraggiati, poi diventano a loro volta sorgenti di luce.
Nel 1949, Lucio Fontana espose a Milano l’opera Ambiente spaziale a luce nera: sotto lampade a raggi ultravioletti, invisibili, la composizione acquistava vita tramite la fluorescenza. Il connubio tra chimica e arte non si è affatto chiuso, ha solo preso una nuova forma.

Il più prezioso dei colori? Oro Oro...Il mondo è sempre stato attratto dal suo luccichio. E anche i pittori ne apprezzano lo splendore. Incollato come foglia sottilissima ottenuta per battitura o spennellato come polvere dispersa nel legante, l’oro era in auge presso gli Egizi, poi nella Grecia antica, e via via fino alle icone bizantine e russe, al Rinascimento, alla Giuditta I che Klimt dipinse nel 1901.

Nell’ultimo ventennio del ’400, Sandro Botticelli mischiò polvere d’oro per dar lucentezza ai capelli di Venere, che sopra una conchiglia viene sospinta sulla riva di Cipro dal soffio di Zefiro.
Si sente parlare anche d’oro musivo, ma è solo un surrogato. L’aggettivo viene dal fatto che, prima di passare anche ai dipinti, questo colore serviva a dorare le “tessere” dei mosaici, cioè le pietruzze che li compongono.
Non è a base d’oro, ma di una sostanza assai meno costosa: un solfuro di stagno.






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