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Umberto II di Savoia, il Re di Maggio

“Maestà, è nato un principe di Casa Savoia”. L’annuncio tanto atteso è finalmente arrivato.

È il dottor Morisani a comunicarlo a re Vittorio Emanuele III. Sono le 23 del 15 settembre 1904. Tutte le luci del castello di Racconigi vengono accese, mentre si sparano centouno salve di artiglieria.

Sono passati otto anni dal matrimonio di Vittorio Emanuele con Elena, la bella principessa del Montenegro, che avrebbe dovuto contribuire a ridare forza al sangue stanco dei Savoia-Carignano, indebolito da troppi matrimoni tra consanguinei.

Sono già nate due figlie: dopo Jolanda, alla nascita di Mafalda si racconta che Elena sia scoppiata in lacrime.

L’erede maschio tarda ad arrivare, tanto che Elena di Savoia-Aosta, l’altro ramo della famiglia che potrebbe succedere ai Carignano in assenza di eredi, comincia a chiamare suo figlio Amedeo “mon petit roi”, il mio piccolo re (anche se non lo diventerà mai).

È quindi un Vittorio Emanuele orgoglioso, più che emozionato, quello che scrive alla madre Margherita: «Mamma, ho avuto un figlio: si chiamerà Umberto». Orgoglio di re, più che di padre: la continuità dinastica è salva: i Savoia-Carignano resteranno sul trono.

E le premesse sono molto buone. Il diario di corte riporta questa annotazione: “Bambino robusto, longilineo, bello. Prima, allattamento materno; in seguito, una balia di Viggiù”.

Nonostante la grande attesa, la nascita dell’erede al trono d’Italia non suscita tutta l’eco che ci si sarebbe aspettati. Sembra anticipare la caratteristica dell’intera esistenza di Umberto: vissuta sempre in secondo piano, mai da protagonista.

Umberto II di Savoia regnò per un mese soltanto, ma fu un periodo difficilissimo, in cui l’Italia, uscita sconfitta dalla guerra e dal fascismo, cercava di tornare alla normalità.

Umberto II dimostrò fermezza e buon senso, anche quando decise di accettare la volontà popolare e lasciare il trono in punta di piedi.

Ma chi era veramente Umberto II di Savoia, il “rubacuori” per eccellenza ossia “il più bel principe del mondo”? Scopriamolo insieme.

 

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1. Un’educazione rigidissima

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Il principino nasce a tarda sera. L’annuncio ufficiale arriva quando i giornali sono già in chiusura e finisce nelle pagine interne (sul “Corriere della Sera”, in quarta pagina, relegata in un colonnino).

Tutta l’Italia è bloccata da uno sciopero generale e solo dopo qualche giorno la notizia inizia a circolare, accolta con entusiasmo dalla gente comune che, anche se in modo non plebiscitario, continua ad amare la monarchia.

Per festeggiare la nascita dell’erede al trono (che, per non irrigidire ulteriormente i rapporti con la Santa Sede, avrà il titolo di principe di Piemonte e non di Roma, com’era stato suggerito in provocatoriamente da alcuni cortigiani), Vittorio Emanuele concede un’amnistia.

Tra i molti esuli per motivi politici che rientrano in Italia ce n’è uno che negli anni successivi si rivelerà il principale nemico di Umberto: Benito Mussolini, allora ventunenne. I primi anni di Umberto sono sereni. Li passa, per la maggior parte del tempo, a Racconigi.

Una vita spensierata, meno legata all’etichetta di corte, con una madre gaia e protettiva, molto diversa dalla nonna Margherita, che ha prestato molta più attenzione agli intellettuali e alla politica che alla serenità del figlio Vittorio Emanuele, cresciuto da solo e pieno di complessi.

Com’è tipico dei Savoia, in casa si parla in francese o in dialetto piemontese. Quando compie 8 anni, per Umberto cambia tutto: il padre crede che sia arrivato il momento di iniziare a educarlo al futuro ruolo di re.

Il gravoso incarico viene affidato all’ammiraglio Bonaldi, che prendendo alla lettera l’indicazione del re di «forgiarlo con la forza», imposta l’educazione del principe come quella di un militare: disciplina ferrea, ritmi di vita da caserma, studi severi, continue esercitazioni.

 

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2. Il periodo più felice della sua vita

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Ligio al dovere e al volere paterno, Umberto ubbidisce e segue le indicazioni (o, forse è meglio dire, gli ordini) di Bonaldi, ma in cuor suo probabilmente lo odia, tanto da non presentarsi anni dopo al suo funerale.

Il risultato di questa rigida formazione è che Umberto cresce colto, forte nel fisico e con un altissimo senso del dovere, ma privo di autonomia decisionale e succube di Vittorio Emanuele, che vede come un sovrano a cui obbedire senza discutere, non come un padre con cui cui confidarsi e, se necessario, confrontarsi.

Vittorio Emanuele, infatti, non concede alcuna confidenza al figlio, che lo chiamava “Sua Maestà mio padre”. Umberto in sua presenza si inchina e gli bacia la mano: un suddito devoto più che un figlio.

Fedele alla sua immagine di “re soldato”, Vittorio Emanuele porta molte volte con sé Umberto al fronte, dove si manifesta il carattere socievole e la capacità di adattamento del giovane principe, che condivide il rancio con i soldati e ama intrattenersi a parlare con loro.

Nell’inverno del 1917, un momento cruciale della Grande Guerra, il sovrano invita a Venezia re Alberto del Belgio. Verranno raggiunti dalla moglie e da Umberto. Poco dopo, dal collegio di Firenze in cui studia, arriva anche la giovane figlia di Alberto, Maria José.

Fra i motivi della visita, ce n’è uno in particolare: come d’uso tra le famiglie regnanti del tempo, i matrimoni tra gli eredi al trono vengono pianificati con largo anticipo, in nome della “ragion di Stato” e delle opportunità che ne conseguono.

Si decide così che, quando sarà il momento, Umberto sposerà Maria José. I ragazzi non sanno nulla, passano qualche ora insieme, poi si salutano. E con il tempo Umberto si dimenticherà quasi completamente di quella ragazzina undicenne.

Per lui è stata solo una breve parentesi nella sua formazione a futuro re, che vive come un dovere, senza emozioni. Gli anni più intensi della sua vita stanno per cominciare: dopo il Collegio militare di Roma, Umberto studia Legge a Padova, e frequenta l’Accademia militare di Modena.

A vent’anni fa una lunga crociera in Sud America con l’ammiraglio Bonaldi, toccando Cile, Brasile e Argentina. Tutti lo ammirano. L’anno seguente viene nominato tenente dei Granatieri ed è pronto per il suo primo servizio.

Prende coraggio e approfitta di questa opportunità per allontanarsi il più possibile dal padre, ottenendo di trasferirsi a Torino, dove vive il periodo più felice della sua vita.

 

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3. Il principe delle donne

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Saranno anni di feste e ricevimenti, di baldoria e cameratismo. Torino sembra tornata a essere la capitale di un tempo. Umberto è al centro della vita mondana.

Alto, bellissimo in uniforme, viene dipinto come il “rubacuori” per eccellenza, il più bel principe del mondo.

Raccontano che la diva cinematografica Dolores del Río abbia modificato le tappe del suo viaggio in Europa per toccare l’Italia e conoscerlo. Umberto è protagonista delle cronache mondane. Si vocifera di tante relazioni, anche se la più chiacchierata è quella con Milly, una bella soubrette di vent’anni.

Questa relazione, però, disturba Vittorio Emanuele, che teme possa distrarre il principe dai suoi obblighi dinastici, e a Milly viene offerto un contratto che la porterà in tournée negli Stati Uniti, allontanandola da lui.

In realtà Umberto stupisce tutti con la sua capacità di smaltire la fatica e recuperare la concentrazione, che gli permette di presentarsi ogni mattina puntuale in caserma e portare il suo battaglione a distinguersi per efficienza e disciplina.

L’Italia, però, sta cambiando: la progressiva presa del potere da parte del fascismo, il delitto Matteotti con la conseguente crisi parlamentare e l’instaurarsi di un regime che di fatto confina i Savoia a un ruolo di potere soltanto formale mettono presto Umberto e Mussolini su posizioni opposte.

Il principe ritiene il Duce un uomo volgare, e Mussolini ricambia considerandolo un personaggio di scarso valore, un “patàca”, come si dice in Romagna. Invece di imporsi, come sempre Umberto finisce per abbassare la testa e fa un passo indietro, non per compiacere il capo del fascismo ma per ubbidire alla volontà del padre.

È quello che fa sempre, anche quando, nell’estate del 1929, riceve da Vittorio Emanuele l’ordine di sposarsi.

La prescelta è una belga (anni dopo, Umberto ammetterà che in un primo momento non gli era venuta in mente Maria José), così parte per il Belgio per incontrarla e il 24 ottobre, il giorno del fidanzamento, Fernando De Rosa, uno studente antifascista italiano residente a Parigi, gli spara un colpo di pistola mancandolo di poco.

Forse non si rende conto immediatamente del pericolo corso, fatto sta che il principe non si scompone, tanto da apparire impavido come un eroe. Il matrimonio, celebrato a Roma l’8 gennaio 1930, segna l’apoteosi della sua immagine pubblica.

Lui è bello ed elegantissimo, lei, altrettanto radiosa, indossa un abito disegnato personalmente da Umberto, di velluto orlato di ermellino con un lunghissimo strascico.

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Il viaggio di nozze li porterà a Courmayeur, dove tutti notano la stranezza del principe che si fa raggiungere dagli amici torinesi e passa pochissimo tempo in compagnia della sposa.

Bastano pochi mesi per capire che la coppia è male assortita: Maria José ha ricevuto un’educazione liberale e democratica, e vuole vivere e divertirsi come una qualsiasi ragazza della sua età. Umberto preferisce la compagnia dei suoi commilitoni e amici di sempre.

Vivono separati e attorno a questo strano ménage cominciano a fiorire pettegolezzi. L’Ovra, la polizia segreta dell’Italia fascista, comincia perfino a raccogliere un dossier sui comportamenti di Umberto per poterlo ricattare.

Si sussurra di una sua presunta omosessualità (ne parlerà a suo tempo anche Pietro Nenni, durante i comizi prima del referendum costituzionale del 1946, chiedendo alla folla: “Volete forse voi un re pederasta?”).

Pur frequentandosi poco, Umberto e Maria José avranno quattro figli, secondo alcuni nati per inseminazione artificiale o, come si maligna, grazie all’intervento di un altro uomo, forse il gerarca Italo Balbo. La realtà, forse, è molto più banale: Umberto e Maria José non si amano, ma sono stati costretti a sposarsi.

Sempre sotto i riflettori, è difficile nascondere la verità, specie se qualcuno soffia sul fuoco. Mussolini, in particolare, si vendica del principe, che non si è fatto conquistare dal suo carisma e non ha mai preso la tessera del Partito Nazionale Fascista (a differenza di altri suoi congiunti), impedendogli di comandare unità militari operative.

Mentre i suoi cugini Savoia-Aosta vanno a conquistarsi un po’ di gloria nelle guerre coloniali, Umberto deve continuare a svolgere il suo ruolo di rappresentanza, sempre un passo indietro rispetto al padre Vittorio Emanule III.

 

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4. Un trono traballante

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Le cose non cambiano nemmeno allo scoppio della Seconda guerra mondiale: nessun incarico operativo per l’erede al trono, nessuna presa di posizione indipendente.

Poi Umberto si avvicina al conte Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, preoccupato per l’evolversi della situazione politica.

Il 28 marzo 1940, Ciano annota sul suo diario: «Lungo colloquio ieri col Principe di Piemonte. Mentre di solito è prudente e riservato, pur senza troppo esporsi, non ha nascosto la sua preoccupazione per l’orientamento sempre più germanofilo della nostra politica, preoccupazione aggravata dalla sua conoscenza delle nostre condizioni militari. Nega che dal settembre a oggi siano stati realizzati effettivi progressi nell’armamento: il materiale è scarso e lo spirito è depresso. Parla con la più seria preoccupazione della milizia, che non rappresenta l’anima volontaristica dell’esercito, ma costituisce un nucleo di malcontento e di indisciplina».

Questo incontro non ha un seguito. Vittorio Emanuele, che probabilmente ha ispirato le parole di Umberto per sondare la disponibilità di Ciano a prendere il posto di Mussolini, facendolo cadere in modo istituzionale attraverso il voto del Gran Consiglio del fascismo (come accadrà il 25 luglio 1943), quando capisce che il genero del Duce non è maturo per associarsi all’impresa, abbandona il progetto.

Mussolini rimane in sella altri per tre anni, mentre la guerra volge al peggio. Quando gli Alleati sbarcano in Italia è troppo tardi per salvare le sorti della monarchia. Il Duce viene arrestato ma, liberato dai paracadutisti tedeschi, dà vita alla Repubblica Sociale Italiana. E la guerra continua.

L’armistizio dell’8 settembre coglie tutti di sorpresa, a cominciare da Umberto, che non sa nulla. Tornato a Roma, scopre che il re e la regina sono già fuggiti con un seguito di generali terrorizzati dalla possibilità che i tedeschi intercettino la colonna e li passino per le armi.

Il principe li raggiunge per chiedere al padre di poter tornare a difendere Roma e opporsi alle truppe germaniche che stanno per occuparla. Glielo impediscono. Badoglio gli ricorda: «Lei è un militare. Deve obbedire agli ordini».

Nei mesi successivi, Umberto chiederà di poter andare al Nord per combattere con i partigiani, o almeno al fronte come comandante delle truppe di liberazione.

Non gli viene concesso, anche se riesce a partecipare alla battaglia di Montelungo, la prima azione dopo l’armistizio di Cassibile in cui i soldati italiani si scontrano con i tedeschi: in quell’occasione vola su un aereo di ricognizione, una “Cicogna”, rischiando di essere abbattuto ma procurandosi informazioni preziose sulle posizioni del nemico. Viene proposto per un’onorificenza, ma la rifiuta.

 

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5. Un regno durato meno di un mese

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Nel giugno del 1944, dopo la liberazione di Roma, è nominato dal re luogotenente generale del Regno.

Si tratta del risultato di un accordo tra le varie forze politiche che formano il Comitato di Liberazione Nazionale, per congelare la questione istituzionale fino al termine del conflitto, mettendo in secondo piano il sovrano, ormai troppo compromesso, ma salvando per il momento la monarchia.

Umberto esercita di fatto le prerogative del re, pur senza averne ufficialmente il diritto, che rimane al padre. Chiamato finalmente a un ruolo attivo, ottiene presto la fiducia degli Alleati:.

Sua è la firma sul decreto legislativo luogotenenziale 151/1944: stabilisce che, a guerra finita, la forma istituzionale sarà scelta dal popolo, attraverso un’Assemblea Costituente eletta a suffragio universale.

Il 9 maggio 1946, ad appena un mese dallo svolgimento del referendum che deve decidere tra monarchia e repubblica, Vittorio Emanuele III abdica e si trasferisce in Egitto. È una mossa disperata ma astuta.

Fedele alla regola che “in Casa Savoia si regna uno alla volta”, Umberto non si è mai compromesso con le scelte del padre. È una rottura di fatto con la tregua istituzionale concordata con le forze repubblicane che ha caratterizzato il periodo della luogotenenza.

Il nuovo sovrano è molto popolare e le forze repubblicane temono che possa scatenarsi una guerra civile fra il Sud monarchico e il Nord repubblicano, con l’Arma dei Carabinieri schierata al fianco del re.

Umberto, però, mantiene il controllo della situazione e fa una scelta responsabile: accetta il confronto democratico e gira il Paese, accompagnato dalla moglie e dai figli, rientrati in Italia per dare almeno la parvenza di una famiglia unita.

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Il Sud lo acclama, a Milano viene fischiato. Comunque sia, riesce a veicolare l’immagine di una “monarchia progressista”, aggiudicandosi i voti dei molti indecisi, tanto che alla fine il risultato del referendum è una sconfitta di misura.

Mentre si stanno ancora controllando le schede, prima che la Corte di Cassazione proclami la vittoria della Repubblica, il Consiglio dei ministri, con una forzatura giuridica, la proclama di fatto.

Umberto protesta, definendolo un “atto rivoluzionario”. Ancora nel pieno delle sue prerogative costituzionali, potrebbe far arrestare i ministri accusandoli di “colpo di Stato”, ma preferisce non farlo, accettando l’esilio.

Il suo non va interpretato come un atto di debolezza ma al contrario come una prova di responsabilità, che evita all’Italia un possibile bagno di sangue. Il suo regno è durato meno di un mese: il “re di maggio” passerà il resto della sua vita in esilio in Portogallo, come il suo antenato Carlo Alberto.

La moglie, che lo ha preceduto, lo abbandona quasi subito portando con sé il figlio Vittorio Emanuele. Le figlie, invece, restano con lui, per poi sposarsi e allontanarsi a loro volta.

Da allora, fino alla fine, Umberto vivrà solo, in una sobria villa sul mare a Cascais, ma con il pensiero sempre rivolto al suo Paese: «Sorge il mattino e mi sorprendo quasi sempre con il pensiero all’Italia. Cala la notte, e prima di spegnere la luce e riposare ho la visione della piazza del Quirinale, di Roma, la città che non si può non amare»

Qui vive fino alla fine, alternando le letture al tempo dedicato alle visite dei molti italiani che arrivano fin lì per salutarlo. Ama nuotare e fare lunghe passeggiate. Parla con i pescatori ed è cordiale con tutti. S

pesso va a Lisbona, dove ama ascoltare il fado cantato da Amália Rodrigues. Poi torna alla sua casa, protesa sul mare, quasi alla “fine del mondo”. Umberto II di Savoia morì il 18 marzo 1983. È sepolto, per suo espresso volere, nell'abbazia di Altacomba nelle tombe dei Savoia di Hautecombe in Savoia (Francia).

Nella foto piccola in alto a sinistra, il famoso scatto che immortala l’ultimo saluto (e sorriso) del “re di maggio” prima di imbarcarsi a Ciampino su un aereo che lo porterà per sempre lontano dall’Italia. È il 13 giugno 1946.

 








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