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5 errori di traduzione che trasformarono la storia

Un tempo tradurre una parola della Bibbia in un modo piuttosto che in un altro poteva costare la vita.

Uomini come Wycliffe e Tyndale ebbero molti problemi con la Chiesa per le loro traduzioni.

Nel 1428, i resti del corpo di John Wycliffe, che pure era morto di morte naturale nel 1384, furono riesumati e bruciati, mentre le sue ceneri furono sparse nel fiume Swift, dopo che il Consiglio di Costanza (1415) lo ebbe dichiarato eretico.

Pure i suoi libri furono bruciati. La Chiesa non gli aveva perdonato di aver tradotto la Bibbia.

Anche l’umanista, tipografo, editore e traduttore francese Etienne Dolet pagò per le sue opere: nel 1546 fu condannato al rogo per ateismo, blasfemia, sedizione e pubblicazione di libri proibiti.

Fra l’altro, per aver tradotto uno dei dialoghi di Platone. Secondo l’accusa, la sua traduzione instillava nel lettore la sfiducia nell’immortalità dell’anima.

La verità é che per un errore di traduzione si può morire o compromettere qualcosa di importante, oppure ancora cambiare visione al mondo intero e trasformare la storia, come dimostrano le 5 storie che vi racconteremo oggi.

E per chi è interessato all’argomento, vi consigliamo la lettura dello straordinario libro di Romolo Giovanni Capuano “111 errori di traduzione che hanno cambiato il mondo”. Buona lettura.

 

1. Gesù Cristo: la croce o il palo?

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"Gesù Cristo patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto". Così insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica in una delle sue formule più note.

Questo insegnamento è talmente diffuso che tendiamo a dare per verità acquisita il suo contenuto, che peraltro dovrebbe essere riferito a fatti storici e quindi teoricamente verificabili.

In particolare, siamo tutti d'accordo sul fatto che Gesù fu crocifisso. Lo ricordano quotidianamente le migliaia di crocefissi che affollano le case degli italiani e più di un edificio pubblico, a dispetto della dichiarata laicità dello Stato.

Ma siamo sicuri che Gesù fu crocifisso? Secondo vari autori e diverse confessioni cristiane (tra cui i Testimoni di Geova), no. E la ragione sarebbe un errore di traduzione.

Tanto più straordinario in quanto responsabile di un pilastro fondamentale della fede. La parola italiana "croce" traduce il latino crux, che a sua volta traduce il greco stauròs. Ma stauròs non significa "croce" bensì "palo", un semplice palo né a forma di croce né a forma di T.

Questo palo veniva usato anticamente per giustiziare i criminali e secondo Herbert Cutner, uno dei sostenitori della tesi dell'errore di traduzione, ...a volte veniva appuntito e conficcato nel corpo della vittima per fissarla al terreno, oppure la vittima veniva piazzata in cima al palo in modo che poi venisse trapassata gradualmente, oppure veniva legata al palo e lasciata lì finché non fosse sopraggiunta la morte, e c'erano anche molti altri metodi.

A riprova di ciò, tutti i dizionari di greco riportano che il significato primario di stauròs è "palo", mentre quello di "croce" è un'evoluzione successiva, risalente probabilmente al II secolo d.C., se non dopo.

C'è da aggiungere che anche il latino crux originariamente non indicava una "croce", ma un "albero, forca o altro strumento di legno per l'esecuzione capitale, su cui erano messi al palo o appesi i criminali".

Anche negli scritti dello storico romano del I secolo d.C. Tito Livio, crux sembra significare solo un palo semplice. Intendendo stauròs con palo, poi, sarebbe più comprensibile l'episodio di Simone di Cirene, narrato nei Vangeli, che fu costretto a portare la croce.

Una croce è praticamente impossibile da trasportare per un solo uomo, mentre un palo, nonostante il peso calcolato sia intorno ai 45 kg, sarebbe più ragionevole.

Ma allora perché si è imposta l'equazione stauròs = croce? Al riguardo, varie sono le ipotesi. La prima rimanda all'influenza di miti religiosi anteriori alla nascita di Gesù. La croce, infatti, è stata usata come simbolo sacro in relazione ad altre divinità come il greco Bacco, il tiro Tammuz, il caldeo Bel e il norvegese Odino.

Un'altra interpretazione sottolinea il ruolo avuto dalla cosiddetta "visione di Costantino" del 312 d.C., prima della battaglia di Ponte Milvio che, secondo la tradizione, avrebbe favorito la conversione dell'imperatore romano al Cristianesimo.

Alcune fonti, peraltro discutibili, riportano che Costantino vide una croce in cielo, accanto alla scritta In hoc signo vinces ("Con questo segno vincerai") e che da allora la croce cristiana si sarebbe imposta sugli altri simboli pagani.

Le cose però non stanno così, come testimoniano i simboli rinvenibili sulle monete coniate durante il suo imperio. Inoltre, Costantino non avrebbe visto la croce di Gesù, ma il cosiddetto "monogramma di Cristo" formato dall'intersezione tra la lettera greca "X" (chi) e la "P" (rho).

Infine, dobbiamo ricordare che la croce come simbolo definitivo di Cristo si imporrà solo nel VII secolo, mentre prima erano prevalenti i simboli del pesce e del pastore. Insomma ci sono buone ragioni per sospettare che dietro il simbolo della croce vi sia un errore di traduzione.

Ciò non cambia molto le cose. Morire su uno stauròs era un'esperienza orribile, "una sofferenza intollerabile... la più penosa delle morti", come ricorda lo storico Flavio Giuseppe. E questo sia che fosse un palo, sia che fosse una croce.

2. Alessandro Magno divenne dio per un errore di interpretazione

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Alessandro Magno, il grande condottiero dei macedoni, conquistatore dell'impero persiano, era un individuo molto superstizioso. Lo dice lo scrittore greco Plutarco, autore di quella che è probabilmente la sua biografia più nota.

Alessandro fu sempre molto attento a ogni manifestazione del divino e pronto ad attribuire un significato soprannaturale a ciò che gli capitava.

Presso la sua corte si trovavano un gran numero di indovini, le cui arti magiche erano costantemente interrogate per trarre vaticini sul futuro.

Molto frequentati erano anche gli oracoli, come quello di Delfi, la cui sacerdotessa, costretta una volta a venire al tempio in un giorno infausto, gli predisse che sarebbe stato invincibile.

Anche i sogni erano importanti, come quello che gli preannunciò la presa di Tiro o quello che gli indicò dove fondare la città di Alessandria. In realtà, dalla narrazione di Plutarco, non sempre è chiaro se Alessandro fosse un povero credulone o un abile sfruttatore di credenze comuni.

All'epoca, infatti, oracoli, indovini e presagi erano continuamente consultati da re e condottieri per far fronte alle incertezze di ogni battaglia. É probabile che la verità stia nel mezzo.

Alessandro era figlio del suo tempo e, quindi, aveva fatto proprie le tradizioni soprannaturali diffuse attorno a sé. D'altro lato, sapeva come guidarle per perseguire i propri scopi. Ad esempio, coltivò con molta sapienza la leggenda secondo cui sarebbe stato di origine divina.

Plutarco lo definisce addirittura discendente di Eracle per parte di padre, tracciandone una generosa genealogia mitologica. Un episodio curioso, raccontato sempre da Plutarco, fa capire come Alessandro non perdesse occasione per legittimare le sue pretese divine.

Una volta, si recò a consultare il celeberrimo oracolo di Ammone, dio egiziano identificato con il dio Sole, a 600 km circa da Tebe. Appena arrivato, il profeta del dio lo salutò "come se il dio fosse suo padre". Dopo di ciò, Alessandro chiese del suo impero, e cioè se gli concedeva di diventare signore di tutti gli uomini.

Il dio rispose che questo gli era concesso [...] poi Alessandro fece splendide offerte al dio e diede ai sacerdoti abbondanti somme di danaro. Questo tramandano la maggior parte delle fonti; lo stesso Alessandro in una lettera alla madre dice di aver avuto alcune rivelazioni segrete che al suo ritorno avrebbe rivelato a lei sola.

Alcuni dicono che il profeta volendo rivolgersi a lui con affetto, in greco, dicendogli: «o paidion» («o figlio»), alla fine della parola, data la imperfetta conoscenza della lingua, pronunziò «s» in luogo di «n», e ne risultò: «o paidios» («o figlio di Zeus»); Alessandro fu lieto per questo errore di pronuncia, e si diffuse poi la voce che il dio stesso lo aveva chiamato figlio di Zeus.

La divinizzazione di Alessandro fu così fondata su un malinteso linguistico: un errore di pronuncia che comunicò un significato anziché un altro. Fu uno sbaglio involontario? Oppure una forma di accondiscendenza nei riguardi di un re così generoso nei confronti dell'oracolo?

Per Alessandro non fece alcuna differenza. Lo stesso sacerdote, con la sua cattiva pronuncia, ratificò l'esito di quell'errore che servì a certificare al mondo intero l'origine sovraumana del re macedone.

Noi che viviamo in un'epoca secolarizzata siamo forse troppo inclini al sospetto per leggere nell'episodio qualcosa di diverso dall'abile manovra di un uomo ingegnoso. In quei tempi, al contrario, tutto era possibile. Perfino che un re diventasse un dio per un errore di pronuncia.

3. Antica Roma e la direzione di un pollice

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É uno dei gesti più noti che ci venga dal mondo dell'Antica Roma, anche a chi non ha mai studiato il latino.

Reso celebre dal film di Ridley Scott Il gladiatore (2000), nella scena in cui l'imperatore Commodo (Joaquin Phoenix nella foto) decreta la morte dei gladiatori sconfitti, ma anche da Jean-Léon Géróme, artista dell'Ottocento, in un dipinto intitolato Pollice verso.

Si tratta, naturalmente, del gesto del "pollice in giù", contrapposto nel nostro immaginario a quello del "pollice in su" che, al contrario, designa l'ordine dell'imperatore di risparmiare la vita dello sconfitto. Tutti conoscono il significato dei due gesti, tanto da utilizzarli nella vita quotidiana.

Addirittura, secondo alcuni, il gesto, tutto contemporaneo, di alzare il pollice a significare OK deriverebbe dal gesto del "pollice in su" adoperato nel corso dei combattimenti dei gladiatori. Un'origine apparentemente sensata, se si pensa all'affinità tra i due gesti. Ma le cose stanno davvero così? Non proprio.

E tutto a causa di un ostinato errore di traduzione, compiuto nel corso dei secoli da svariati autori, che probabilmente hanno trovato sostegno l'un l'altro nella perpetuazione dell'errore.

Non abbiamo testimonianze antiche che ci dicano in maniera chiara come si muovevano i pollici degli imperatori romani quando decretavano l'uccisione o la sopravvivenza di un gladiatore.

L'errore è cominciato più tardi, quando alcuni autori hanno frainteso le poche testimonianze scritte disponibili sull'argomento, avallando un'interpretazione tanto duratura quanto fallace. 

É il caso, ad esempio, di alcuni versi delle Satire del poeta latino Decimo Giunio Giovenale che vale la pena citare per l'impatto che la loro traduzione errata ha avuto sull'immaginario di noi contemporanei.

Nella terza satira del primo libro, si leggono i versi "Quondam hi cornicines et municipalis harenae perpetui comites notaeque per oppida buccae munera nunc edunt et, verso pollice vulgus cum iubet, occidunt populariter; inde reversi conducunt foricas". ...che di norma sono tradotti: Un tempo suonavano il corno, comparse fisse delle arene di provincia, ciarlatani famosi di città in città; ora offrono giochi e quando la plebaglia abbassa il pollice decretano la morte per ottenerne il favore; poi, di ritorno, appaltano latrine.

Il problema è che non c'è nessun motivo per cui pollice verso debba essere reso con "abbassa il pollice". Verso (o converso a seconda delle fonti) indica semplicemente che il pollice era girato, ma quale fosse la direzione non è affatto specificato dal testo di Giovenale. E neppure da altri autori latini, come Prudenzio, il quale, nel secondo dei suoi due libri contro Simmaco, parla genericamente di converso pollice.

A complicare, o forse a chiarire, le cose si aggiunge l'inno, il quale, nel ventottesimo libro della sua Storia naturale, specifica che «Piegare o inclinare il pollice verso il basso per dare il nostro assenso a una cosa o fare un favore a una persona è un gesto così usuale che è entrato nel discorso come modo di dire».

D'altro lato, nell'antica Roma, era adoperato il gesto del pollice compresso, cioè coperto dalle altre dita, per indicare che si desiderava risparmiare la vita del gladiatore. É allora probabile che l'opposizione gestuale non fosse tra "pollice in su" - per salvare la vita - e "pollice in giù" - per condannarla -, ma tra "pollice esteso" (orizzontalmente o in alto) e "pollice nascosto tra le dita".

Interpretazione comprensibile se si pensa che il pollice esteso, al di là della sua direzione, imitava il movimento della spada: una specie di esortazione a infilzarla nel corpo del malcapitato. Autori contemporanei, come John Lloyd e John Mitchinson si dicono certi, invece, che il gesto del "pollice in su" significasse condanna.

Comunque sia, sembra che Ridley Scott fosse a conoscenza di tutta la faccenda, ma che abbia insistito lo stesso affinché Joaquin Phoenix, nelle vesti di Commodo, eseguisse il tradizionale gesto del pollice in giù. Per non confondere gli spettatori. Che, però, sono confusi da secoli. A causa di un errore di traduzione.

4. Di che colore era il Mar Rosso?

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Di che colore era il Mar Rosso? Azzurro, come quello di tutti i mari del mondo, se per Mar Rosso si intende il mare compreso tra l'Africa e la penisola arabica.

Ma per tutti indica il luogo che gli ebrei guidati da Mosè attraversarono per sfuggire all'esercito egiziano.

Il libro dell'Esodo racconta che, per volere di Dio, le acque si aprirono miracolosamente al passaggio dei primi, per poi richiudersi rovinosamente sugli inseguitori finché «non rimase di essi neppure uno».

Ebbene, questo luogo è lo stesso Mar Rosso pubblicizzato dalle agenzie turistiche? Secondo alcuni interpreti, non proprio.

Il teologo ebreo Pinchas Lapide osserva che in ebraico il Mar Rosso si chiama Yam-Suf, che significa "Mare dei Giunchi" perché le sue sponde sono coperte di giunchi, rinomati nell'antichità in quanto da essi si otteneva la materia prima per fabbricare i rotoli di papiro.

Ora, per un errore di traduzione, questo "Mare dei Giunchi" si trasformò nel Mar Rosso che oggi tutti conosciamo. Infatti, quando John Wycliffe tradusse per la prima volta la Bibbia in inglese, intorno al 1375, rese correttamente Yam-Suf con "Rede Sea", equivalente, secondo l'ortografia del tempo, all'attuale "Reed Sea" ("Mare dei Giunchi" appunto).

Martin Lutero, che consultò la Bibbia di Wycliffe mentre eseguiva la sua traduzione in tedesco, confuse Rede con Red ("Rosso") finendo col tradurre "Mar Rosso"; errore poi rimasto nella storia.

Questa svista, unita al fatto che gli Ebrei non distinguevano tra "mare" e "lago", ha un'importanza notevole, in quanto ci consente di reinterpretare l'episodio della fuga dall'Egitto in maniera più prosaica.

É possibile che il luogo indicato nel libro dell'Esodo con il nome di "Mar Rosso" facesse riferimento a una zona paludosa a sud dei laghi amari, nei quali confluiscono le acque dello Yam-Suf, in cui i guadi sono frequenti, e che gli egiziani, che viaggiavano su carri trainati da cavalli, vi siano rimasti impantanati.

Non si tratterebbe, dunque, di un miracolo divino, ma di un evento storico ingigantito dalla leggenda e da un errore di traduzione!

Altre ipotesi, nessuna delle quali ha riscosso consenso universale, identificano, di volta in volta, il Mar Rosso dell'Esodo con una zona lungo il Golfo di Suez; con le paludi del lago di Timsàh, che ora fanno parte del Canale di Suez; con la Palude di Bardawll.

Qualsiasi cosa debba intendersi per Mar Rosso, è però probabile che non abbia a che fare con un mare aperto, come è comunemente inteso. Secondo Pinchas Lapide, non c'è nulla di male in tutto ciò. Si tratta di una banale svista linguistica, senza conseguenze rilevanti.

Se, però, questa banale svista consente di demistificare il presunto miracolo del Mar Rosso e ricondurlo a un semplice, per quanto importante, fatto storico, forse le conseguenze non sono così insignificanti.

Un brutto colpo per i credenti, abituati dalla tradizione a pensare che dividere in due un mare sia una cosa possibile. Anche se solo per volere divino.



5. Monastero di Montecassino: fu bombardato per un errore di traduzione

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É ricordato come il più violento bombardamento contro un edificio accaduto durante la Seconda guerra mondiale.

Si tratta della distruzione del Monastero di Montecassino, avvenuta il 15 febbraio 1944 da parte delle forze alleate convinte che al suo interno si nascondesse un battaglione tedesco.

Risultato: monaci salvi, ma diverse centinaia di profughi, che avevano trovato rifugio nel monastero, uccisi. E soprattutto raso al suolo il più glorioso monastero dell'Occidente, costruito nel 529 da san Benedetto, che vi scrisse la sua famosa Regola, e sopravvissuto nei secoli alle incursioni di Longobardi, Saraceni e Normanni, nonché a un terremoto nel 1349.

Ma perché il monastero? Perché si trovava nella città di Cassino che, tra la fine del 1943 e l'inizio del 1944, era diventata un nodo difensivo strategico per i tedeschi che tentavano di bloccare l'avanzata degli Alleati verso Roma.

«Il motivo per cui è stata bombardata» spiegò il presidente americano Roosevelt poche ore dopo la distruzione, «è che i tedeschi se ne servivano per bombardare noi. Era un caposaldo tedesco, con artiglieria e tutto il necessario».

Anche in seguito, gli Alleati confermarono la presenza di truppe tedesche all'interno del monastero. Una tesi che sostennero anche dopo la guerra e che era supportata da "prove inconfutabili" da rivelare solo al momento opportuno.

Quali erano queste prove inconfutabili? Una in particolare, come rivelò il colonnello David Hunt, divenuto in seguito Sir David Hunt, diplomatico e segretario personale di Winston Churchill, uno dei protagonisti dell'episodio.

L'intercettazione di un messaggio tedesco composto da una domanda: «Ist Abt noch im Kloester?» (L'abate è nel monastero?") e una risposta: «ya, in Kloster mit Monchen» ("Sì, nel monastero con i monaci").

Per un tragico errore, un ufficiale troppo sospettoso aveva inteso la parola abt ("abate") come abbreviazione di abteilung ("battaglione"), spacciando il messaggio per la prova definitiva che i tedeschi, in violazione dell'accordo con il Vaticano di considerare l'edificio zona neutra, fossero asserragliati nel monastero insieme ai monaci.

Di qui la decisione di radere al suolo l'abbazia. Il colonnello Hunt raccontò di essersi reso conto dell'errore a bombardamento già iniziato, quando ormai era troppo tardi per fermare l'operazione.

Ironia della sorte, le rovine del più vecchio monastero del mondo servirono ai tedeschi come roccaforte difensiva, tanto che occorsero altri tre mesi di combattimenti feroci, con conseguenti ulteriori perdite umane, perché gli Alleati riuscissero ad allontanare definitivamente i loro nemici.

In seguito, l'abate in persona, Gregorio Diamare, sopravvissuto al bombardamento - che ebbe il merito, fra l'altro, di porre in salvo l'archivio e i più preziosi documenti bibliografici custoditi nell'abbazia - assicurò che nessun soldato tedesco aveva mai occupato l'edificio.

Ma ormai il peggio era accaduto. Negli anni Cinquanta l'Abbazia fu ricostruita e ancora oggi costituisce meta privilegiata di pellegrini e visitatori interessati alla sua storia. L'episodio del bombardamento del monastero rimarrà, tuttavia, perennemente nella storia a futura memoria degli orrori della guerra: orrori che stravolgono vite, monumenti, interi Paesi. E anche traduzioni.

Forse, con più tranquillità, nessuno avrebbe pensato che abt in quel contesto fosse l'abbreviazione di abteilung, invece della mite parola che significa "abate". Ma in guerra il nemico si nasconde dietro ogni parola e spesso la sua voce è interpretata secondo le aspettative di chi lo combatte piuttosto che secondo ragione.

Come impararono, a proprie spese, le circa 250 persone che morirono nel corso del bombardamento e le oltre 4.000 che furono uccise nel corso della battaglia di Montecassino per poi essere sepolte nel locale cimitero di guerra.






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