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Empatia, percepire le emozioni altrui: un dono o un problema?

Sentire le emozioni degli altri come se fossero nostre è una qualità che, a detta di molti, rafforza i rapporti interpersonali, rendendo il mondo più umano.

Ma oggi parecchi studiosi la pensano diversamente: secondo loro, essere empatici e dunque emotivi spesso non è d’aiuto né nel privato né nel sociale.

Meglio sarebbe puntare sulla razionalità, mantenendo un sano distacco che alla fine risolve più efficacemente i problemi.

 

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1. Predisposizione innata

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La parola “empatia” è ormai da anni sulla bocca di tutti.

Ci dicono che dobbiamo saper provare empatia perché così il mondo sarà migliore, ci saranno meno odio, meno violenze, meno guerre; che dobbiamo entrare in sintonia con i nostri simili per sconfiggere l’indifferenza, imparare a sentire il dolore altrui per rispettare il prossimo e creare solidarietà sociale.

Indubbiamente saper “sentire” le emozioni degli altri ha un’importanza fondamentale nelle relazioni sociali: «L’empatia favorisce la coesione sociale», spiega Franca Tani, docente di psicologia dello sviluppo all’Università di Firenze e autrice, insieme a Silvia Bonino e Alida Lo Coco, del volume Empatia. I processi di condivisione delle emozioni (Giunti, 2010). «Non penso che l’individualismo moderno possa mai cancellarla: l’uomo è un animale sociale e ha bisogno dei propri simili».

Del resto l’empatia ha profonde radici biologiche. Alcuni anni fa, un team di scienziati del Max Planck Institute for biological cybernetics di Tubinga (Germania) dimostrò ad esempio che anche nel cervello dei macachi sono presenti i cosiddetti neuroni di Von Economo, strutture simili a quelle attive nell’insula anteriore dell’uomo, ovvero l’area di corteccia cerebrale che ha uno specifico ruolo nelle funzioni di autocoscienza (la percezione di chi siamo) e nella percezione delle emozioni altrui.

Secondo gli studiosi, i neuroni di quegli animali sarebbero una forma primordiale di quelli umani e ciò farebbe pensare che l’empatia sia un sentimento innato, già presente agli albori dell’evoluzione dell’uomo così come lo è negli altri animali, in grado di percepire le emozioni dei loro simili e di provare compassione per un compagno ferito.

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2. È davvero sempre positiva?

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Ma nelle società umane l’empatia è sempre la soluzione migliore? Che dire, ad esempio, del suo ruolo di fronte ai conflitti sociali?

Con il termine empatia la psicologia indica la capacità di sentire le emozioni dell’altro e quindi di comprenderle fino in fondo fino quasi a viverle sulla propria pelle.

In alcune condizioni questa capacità, così importante nelle relazioni intime, familiari e amicali, può però rappresentare un ostacolo. Se per esempio un buon medico deve certamente essere motivato dal desiderio di aiutare gli altri, un eccesso di empatia con il paziente sarebbe controproducente.

Pensiamo a un chirurgo che dovesse immedesimarsi nella sofferenza di un uomo a cui è stata diagnosticata una grave malattia: il solo pensiero che dal suo agire può dipendere la vita di quella persona, e dunque il dolore di un’intera famiglia, lo influenzerebbe al punto di potergli far commettere errori durante l’intervento. Oppure di andare incontro a un crollo psicologico.

Nella foto sotto, medico e paziente. Se un buon medico deve essere motivato dal desiderio di aiutare gli altri, un eccesso di empatia può influenzarlo al punto di incrinare la sua capacità di giudizio e persino la performance professionale.

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Produce effetti opposti! Non solo: «Quando l’immedesimazione nelle vicende altrui diventa troppa, tendiamo a non voler vedere il loro dolore e non ci sentiamo più responsabili», scrive lo psicologo Steve Ayan in un saggio uscito sulla rivista di neuroscienze Gehirn & Geist.

Un eccesso di sofferenza può spingerci infatti a voltare le spalle agli altri, sopraffatti da un’emozione troppo intensa. Così da stimolo ad aiutare chi ha bisogno, l’empatia porta all’indifferenza: meglio sarebbe un coinvolgimento morale nel disagio altrui, ma senza il pesante carico di emozioni che l’empatia inevitabilmente porta con sé.

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3. Controversia sull’elemosina

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C’è poi un altro aspetto che rende l’empatia, quando eccessiva, pericolosa.

Nell’introduzione di Contro l’empatia. Una difesa della razionalità, discusso saggio dello psicologo canadese Paul Bloom (Liberilibri), leggiamo: «L’empatia ha un aspetto positivo nella fruizione dell’arte e, talvolta, nei rapporti intimi. Il problema si pone, invece, quando l’empatia viene usata per capire e prendere decisioni nei casi più complessi, che sono poi i casi politici, sociali ed economici».

Se un governo prendesse decisioni pubbliche sulla base dell’emotività produrrebbe fallimenti e ingiustizie. In fondo, è quello che succede anche a noi quando un senzatetto ci chiede l’elemosina: ci sentiamo di fare del bene quando, mossi dall’empatia, gli diamo del denaro.

Ma non è così: quei soldi infatti gli risolvono soltanto il suo problema momentaneo di trovarsi qualcosa da mangiare, ma in realtà lo spingono a continuare a mendicare nell’attesa quotidiana di una monetina.

Meglio sarebbe invece non dargli nulla, andando contro a quel che ci dice il cuore, e impegnandoci piuttosto ad aiutarlo, ad esempio con il volontariato, a integrarsi nella società così da consentirgli di trovarsi un lavoro.

Ci fa sentire buoni! In casi come questo, infatti, l’empatia serve soltanto a noi per sentirci buoni, ma alla lunga fa del male a chi vorremmo aiutare. «L’empatia è miope», scrive Bloom, «motivando azioni che potrebbero rendere le cose migliori nel breve periodo, ma portare a risultati negativi in futuro. E incapace di fare i calcoli, favorendo l’uno rispetto i molti».

Nella foto sotto, quando facciamo l’elemosina a un senzatetto, siamo spesso spinti dall’empatia. Facciamo bene? Quei soldi spesso non risolvono il problema, ma lo cronicizzano.

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4. Dannosa nella vita pubblica

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Carlo Lottieri, docente di filosofia del diritto all’Università di Verona e direttore del dipartimento di Teoria politica presso l’Istituto di studi liberali Bruno Leoni, ci fa notare come l’empatia sia dannosa proprio nella vita pubblica:
«L’empatia ha una spontanea prevalenza perché parla dei “fini”, cioè ci mette in comunicazione con l’umanità dell’altro, mentre la razionalità si focalizza sui “mezzi”, cioè su quel che è più opportuno fare perché quei fini siano raggiunti».

I problemi della politica nascono da questo errore: «La logica dei politici di professione predilige il “breve termine” per ottenere consenso elettorale. Per questo i sistemi democratici producono debiti crescenti: sono il risultato di benefici immediati».

In altre parole, si dà voce alla “pancia” con misure che creano consenso rispondendo al bisogno momentaneo, come il discusso reddito di cittadinanza, quando invece sarebbero più utili misure strutturali, anche se più difficili da accettare nell’immediato.

L’empatia è faziosa! Nell’uomo è infatti innata la tendenza a provare empatia in misura diversa a seconda di chi abbiamo di fronte. La ricerca ha dimostrato che è più immediato e più probabile provare empatia per chi conosciamo e per chi è più simile a noi quanto a età, genere, gruppo etnoculturale, livello socioeconomico, religione o orientamento sessuale.

Essere bravi cittadini implica però il dovere morale di riservare a tutti lo stesso trattamento, anche a chi non è “dei nostri”: «L’empatia è faziosa, di parte», prosegue Bloom. «Ci spinge verso il campanilismo e il razzismo». Insomma, ci porta ad aiutare o a riservare una corsia preferenziale a chi vogliamo noi.

Quindi come comportarci? «Essere contro l’empatia non significa che dovremmo essere ingiusti e immorali», conclude Bloom.

«Ma se vogliamo rendere il mondo un posto migliore ci riusciamo meglio senza empatia».

Prima che in modo empatico dovremmo comportarci in modo civile e compassionevole, cioè giusto: solo così possiamo prenderci cura del benessere degli altri senza creare ingiustizie.

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5. Meglio essere distaccati

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L’empatia va controllata per evitarne gli effetti indesiderati: «Numerose ricerche hanno dimostrato che una caratteristica cruciale nel modulare il nostro comportamento sociale è la capacità di auto-regolazione», spiega Paolo Albiero, psicologo all’Università di Padova.

«Essa è fondamentale per il nostro adattamento sociale: le persone che hanno buona capacità di autoregolazione sono in grado di controllare i loro comportamenti e quindi di partecipare alle emozioni degli altri mantenendo una sana distanza».

In pratica non corrono il rischio di essere sopraffatti dalla loro empatia con conseguenze pericolose per sé e gli altri. «Questa capacità è considerata una componente del temperamento e ha quindi una base innata, ma può essere sviluppata e allenata».

La sofferenza crea legami intensi! Tra gli anni Ottanta e Novanta una celebre scoperta neuro-scientifica consentì di comprendere qualcosa di più circa i meccanismi psichici dell’empatia: parliamo dell’identificazione dei cosiddetti neuroni specchio grazie a un’équipe dell’Università di Parma coordinata da Giacomo Rizzolatti, che dimostrò come alcune strutture nervose si attivino non solo all’esecuzione di specifici atti motori, ma anche osservando altri eseguirli.

Gli studi sull’empatia peraltro hanno chiarito che questa predisposizione innata è particolarmente attiva quando gli esseri umani si confrontano con emozioni negative: a dimostrarlo c’è uno studio della Aalto University e del Turku Pet Centre (Finlandia) che spiega come queste siano estremamente contagiose e in grado di “accoppiare” il nostro cervello con quello di chi ci circonda.

Diverse indagini nel passato avevano già chiarito come le amicizie nate in condizioni di stress siano le più intense e durature: ad esempio i rapporti tra gli ex commilitoni del Vietnam sono durati spesso anche più di vent’anni.

Gli studi sull’empatia hanno quindi smontato da anni e definitivamente le ipotesi psicologiche secondo cui la natura umana è fondamentalmente violenta ed egoista.

 








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