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I viaggi interstellari

Perché mai dovremmo fare un viaggio verso altre stelle?

È una domanda che ci poniamo ogni volta che si parla di viaggi nello Spazio.

Una ragione è forse che le risorse del nostro pianeta si stanno esaurendo; un’altra è che le stelle semplicemente sono là.

La nostra è infatti una specie di scimmia curiosa e l’interesse che proviamo per i viaggi interstellari ha un ruolo di spicco nella fantascienza. come il film Prometheus, il prequel di Alien, che ha per soggetto la spedizione verso un altro mondo.

Per raggiungere le stelle dovremo superare grossi ostacoli: scientifici, sociali ed economici.

La NASA e il DARPA (l’agenzia di ricerca e sviluppo americana in campo militare) hanno finora finanziato con 500mila dollari il progetto «100 Year Starship» (l’astronave dei prossimi 100 anni), un piano per realizzare i viaggi interstellari entro un secolo, appunto.

Il crescente interesse ha prodotto lo scorso ottobre un evento decisivo: il simposio 100 Year Starship, a cui hanno partecipato astronomi del calibro di Jill Tarter o scrittori di fantascienza come Stephen Baxter, con lo scopo di identificare i problemi e di offrire delle soluzioni.

La portata dell’impresa è scoraggiante. Se create un modello in scala della distanza dalla Terra alla Luna in una sala conferenze lunga 20 metri, ebbene la stella più vicina (Alpha centauri) sarebbe lontana come la Luna vera dalla Terra.

In migliaia di anni la velocità di spostamento degli uomini è progredita dai 4 chilometri orari della loro camminata ai 40mila chilometri all’ora raggiunti dalla navicella Apollo durante il viaggio di ritorno dalla Luna.

Ma raggiungere le stelle vicine, anche solo in pochi decenni, richiederebbe un aumento di velocità di un ulteriore fattore 10mila, vale a dire prossimo alla velocità della luce. Andare più veloci non basta: dobbiamo andare più veloci e impiegare meno tempo per farlo.

Eppure, nonostante questi problemi, il viaggio verso un pianeta remoto potrebbe un giorno diventare possibile. Ecco come…

PER SAPERNE DI PIÙ:

1. Primo Passo: Costruire l’astronave

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I razzi attuali viaggiano soltanto al doppio della velocità con cui i gas fuoriescono dall’ugello di scarico, una velocità troppo bassa per i viaggi interstellari. Le astronavi avranno perciò bisogno di nuove potenti forme di propulsione.

  • Razzi nucleari
    La spinta può essere applicata solo nché a bordo è presente il propellente e la velocità dipende in maniera esponenziale dalla massa di quest’ultimo.
    Viaggiare a una velocità tre volte superiore alla velocità dei gas di scarico richiede una massa di propellente pari a 20 volte quella del resto del razzo (il “peso a secco”): la combustione chimica dell’idrogeno e dell’ossigeno è semplicemente troppo lenta.
    I razzi termici nucleari – nei quali l’idrogeno scorre attraverso un nucleo dove avviene la reazione di fissione – aprirebbe le porte del sistema solare a grandi astronavi, che potrebbero raccogliere risorse naturali dai pianeti giganti gassosi (come Giove, Saturno, Urano, Nettuno), nella cui atmosfera l’idrogeno abbonda.
    I razzi termici nucleari – studiati in Russia e negli Stati Uniti già ai tempi della guerra fredda – sono i vettori più promettenti per ottenere entro pochi anni una capacità di spinta elevata.
    Per realizzare un viaggio interstellare dovremmo utilizzare la reazione nucleare che produce l’energia del Sole, la fusione nucleare.
    Nel 1978, un prototipo britannico di astronave, battezzato Daedalus, proponeva di usare la “fusione inerziale”  come spinta per il razzo.
    I laser colpirebbero molto energicamente la superficie di una pastiglia di isotopi di idrogeno, comprimendo la materia in un volume minuscolo e la forte pressione determinerebbe la fusione dei nuclei d’idrogeno, con la conseguente liberazione di energia e la spinta fuori dall’ugello di una massa calda.
    Questo motore ci permetterebbe di raggiungere le stelle vicine, ma impiegheremmo comunque secoli, e poi come primo passo dovremo realizzare la fusione qui sulla Terra, un traguardo che finora ci è sfuggito.
    In un tempo più lungo, potremmo sviluppare missili ad antimateria.
    Quando reagiscono fra loro, l’antimateria e la comune materia si annichilano (annullano) a vicenda e generano un’energia 300 volte superiore all’energia delle reazioni di fusione.
    Il problema è che non abbiamo ancora la tecnologia per fabbricare la quantità di antimateria necessaria.
  • I warp drives, i motori a curvatura 
    Star Trek usa i “motori a curvatura” per spostarsi rapidamente nella galassia.
    Ma sono davvero possibili i viaggi superluminali o più veloci della luce (indicati in inglese come FTL, faster than light)?
    Secondo la teoria generale della relatività di Einstein, l’FTL è possibile se disponiamo di una massa negativa, che ci permetterebbe di deformare lo spaziotempo e quindi il passaggio rapido tra punti distanti.
    Un’entità con una massa negativa avrebbe un comportamento assai strano. Per esempio, qui sulla Terra “cadrebbe in alto”. Pur non essendo mai stata osservata, la meccanica quantistica prevede la sua esistenza.
    La giuria dei fisici teorici è ancora riunita per decidere se potremmo impiegarla per i viaggi interstellari. Dovremmo, infatti, curvare lo spaziotempo con una quantità spaventosa di energia, molta più di quanta potremmo ricavarne da una stella.
    Se potessimo in qualche modo catturare la quantità di energia sufficiente, potremmo distorcere una porzione di spaziotempo, creando una “bolla di curvatura”, come ha proposto il fisico Miguel Alcubierre. La bolla sarebbe grande abbastanza per contenere un’astronave.
    Lo spaziotempo davanti alla bolla si contrarrebbe e quello dietro si espanderebbe, spingendo in avanti la nave spaziale. Ma da dove proviene l’energia e come generarla?
    Una volta è stato fatto il calcolo che l’energia necessaria per creare una bolla di curvatura sarebbe equivalente alla massa di una galassia (Einstein aveva dimostrato che la massa e l’energia sono intercambiabili) e sia la massa sia l’energia possono plasmare lo spaziotempo.
    Oggi si pensa che l’equivalente di energia potrebbe essere quella di Giove. Di strada però dobbiamo farne ancora tanta.
    Giusto un esempio: la bomba a idrogeno più grande mai costruita convertiva in energia solamente pochi chilogrammi di materia.
    Curvare lo spaziotempo nella scala necessaria per le bolle di curvatura va oltre la scienza del Ventunesimo secolo e gli esperimenti veri e propri sono ancora di là da venire.
    Restiamo nel campo della pura teoria: il motore a curvatura usato in Star Trek e alimentato con cristalli di dilitio rimane ancora soltanto un espediente narrativo.
  • Le vele a fasci di energia
    La propulsione di astronavi a vela fu proposta per la prima volta nel 1610 dall’astronomo Giovanni Keplero.
    Egli aveva osservato che la coda di una cometa sembrava soffiata via dal Sole. Disponiamo già di veicoli spaziali con le vele solari, come il giapponese IKAROS (Interplanetary Kite-craft Accelerated by Radiation of the Sun), che richiederebbero tuttavia migliaia di anni prima di raggiungere le stelle più vicine.
    Un’astronave del Ventunesimo secolo che potrebbe realizzare un volo interstellare è un’evoluzione di queste, un veicolo con vela a fasci di energia.
    L’idea è quella di sfruttare la capacità che le onde elettromagnetiche hanno di trasferire energia nello spazio, producendo forza a grandi distanze.
    Il “proiettore” – costituito da un generatore di fasci e da un’antenna – proietta un potente fascio laser o di microonde su una grande vela, la quale rifletterebbe il fascio, acquisendo un’accelerazione e “spingendo via” l’astronave.
    Una nave spaziale di questo tipo compare nel secondo episodio di Star Wars. I proiettori ricorderebbero per aspetto le antenne satellitari che tutti conosciamo, solo molto più grandi.
    La parte costosa è il proiettore, che sarebbe costruito nello Spazio da materiali ricavati dalla Luna o dagli asteroidi e posizionato vicino al Sole, dove funzionerebbe grazie all’intensa energia solare.
    La caratteristica migliore della propulsione a fasci di energia è che il pesante proiettore verrebbe lasciato alle spalle, mentre la vela, leggera, sarebbe sospinta lontano con il suo carico di merci e di passeggeri.
    Il proiettore può poi essere nuovamente usato per missioni future. È una situazione simile alla nascita delle ferrovie nell’Ottocento: una volta posati i binari, il treno diventa una spesa secondaria.
    La fisica delle astronavi a vela è stata dimostrata. Solo che il grosso problema è costruire i proiettori (potrebbero essere larghi migliaia di chilometri) e le vele (dovrebbero dispiegarsi su una superficie di centinaia di chilometri quadrati).
    Per ora, le astronavi di questo tipo sono inefficienti e costose ma le ricerche in corso stabiliranno se arriverà il momento anche per le vele a fasci di energia.

2. Secondo Passo: navigare nello spazio profondo

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Scegliere una rotta è facile. Il problema è trovare i punti di riferimento e superare i pericoli interplanetari.

La stella a cui state puntando è ben visibile. Ma voi in che punto vi trovate?

Per ricavare la vostra posizione usate la triangolazione, che misura gli angoli tra l’astronave e le stelle conosciute.

Come alternativa, stabilite la posizione di diverse pulsar – le stelle a neutroni rotanti che emettono regolari raffiche di intense microonde (impulsi), a intervalli anche solo di un millesimo di secondo.

Tuttavia lo spazio tra le stelle non è vuoto e uno dei problemi è la presenza della polvere interstellare. Benché i suoi granelli abbiano un diametro anche solo di un milionesimo di metro, un’astronave che viaggia per dieci anni luce dovrebbe sopportare un migliaio di impatti su ogni millimetro quadrato della sua superficie.

E così in un viaggio verso Alpha Centauri, il veicolo spaziale verrebbe lentamente ma inesorabilmente eroso dagli impatti, che asporterebbero fino a 1,3 centimetri di fusoliera.

Un modo per evitarlo prevede l’introduzione di un sottile foglio di metallo che precede di pochi metri l’astronave.

Le particelle in arrivo attraverserebbero la lamina e ne uscirebbero ionizzate (sotto forma di elettroni e di ioni carichi elettricamente), prima di colpire uno scudo elettrostatico, una sorta di “campo di forze”: magari una griglia carica elettricamente.

Lo scudo proteggerebbe le parti dell’astronave che sta dietro. Poche migliaia di volt appena devieranno gli elettroni, e un milione di volt serviranno invece per deviare gli ioni.

Generare un simile scudo elettrostatico nel vuoto dello spazio profondo non è un problema. Resta perciò da superare un unico pericolo: le particelle più grandi, rarissime peraltro. Quanto rare però non lo sappiamo.

Ci serviranno ulteriori dati per capire se rappresentano un problema concreto, benché un impulso laser ionizzante sparato dall’astronave e guidato dal radar potrebbe eliminarle.

3. Terzo Passo: fare un viaggio sicuro e confortevole

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Oltre a conservare le condizioni per la sopravvivenza e buoni rapporti sociali, gli umani in viaggio dovranno riprodursi o rimanere in animazione sospesa.

L’assenza di gravità causa ogni mese una perdita pari all’1 o al 2 per cento della massa ossea.

Per generare una gravità artificiale con la forza centrifuga, l’astronave dovrebbe effettuare circa una rotazione al minuto. Potrebbe ruotare l’intera nave o solo una sua parte, come in 2001: Odissea nello spazio.

Impoveriti di massa ossea e del tono muscolare, gli umani non sarebbero capaci di camminare una volta giunti a destinazione. Quanto all’equipaggio, l’aria, il cibo e l’acqua indispensabili determinano il volume di spazio necessario.

Significa che lo spazio per la privacy sarà ridotto a vantaggio degli spazi comuni. La NASA ammette che gli astronauti tollerano spazi ridotti per breve tempo: un’ora in una bara e un giorno in una cabina telefonica.

L’occupazione della Stazione Spaziale Internazionale (ISS), ormai decennale, dimostra che, nel caso delle lunghe permanenze, ogni persona ha bisogno di almeno 100 metri cubi.

Sono possibili due strade per conservare l’habitat. La prima è un ecosistema chiuso e di riciclo, dove ogni cosa viene sviluppata e trattata all’interno. La seconda strada è portarsi dietro i rifornimenti sufficienti per il viaggio.

Ma nessuna delle due è possibile da sola: un ecosistema chiuso di riciclo potrebbe guastarsi e la quantità di rifornimenti necessaria per lunghi viaggi sarebbe proibitiva.

La situazione ottimale sarebbe ricavare metà della massa con ciascuno dei due metodi:
- l’aria e l’acqua potrebbero essere riciclate, come già avviene sull’ISS;
- la frutta fresca e la verdura potrebbero essere coltivate in una fattoria idroponica;
- e il cibo surgelato e disidratato fungerebbe da riserva.

Il fatto è che sulla Terra non siamo ancora riusciti a far funzionare un ecosistema chiuso, perché gli ecosistemi sono composti da troppi sottosistemi e crearne uno in uno spazio limitato supera le nostre attuali capacità.

Oltre ai problemi di sopravvivenza, insorgono i problemi psicologici associati alla vita coatta, a una compagnia di persone limitata e alla dinamica sociale.

Inoltre, in un’astronave con equipaggio ci sarebbero persone di entrambi i sessi, a maggior ragione se fa parte del programma la colonizzazione di un pianeta, e dunque sorgono delicate questioni circa i rapporti e la riproduzione sessuale.

Un modo per lo scorrimento regolare del tempo è l’immobilità, l’animazione sospesa rappresentata in Alien. Il metabolismo corporeo sarebbe rallentato per raffreddamento e rianimato all’arrivo.

Il biochimico Mark Roth studia il rallentamento metabolico che serve per guadagnare tempo nei casi di persone vittime di un trauma e in attesa di un trattamento.

L’immobilità ridurrebbe la necessità dei beni di rifornimento ed eliminerebbe le questioni psicologiche.

4. Quarto passo: atterrare su un mondo alieno

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Prima di allestire una base e di terraformare il pianeta bisogna fare accurati preparativi.

Anche se l’astronave con equipaggio umano punterebbe dritto sul pianeta stabilito, lungo il cammino potrebbe far scendere piccole sonde nelle orbite di altri pianeti interessanti di quel sistema solare.

Studiando gli spettri luminosi dell’atmosfera di un pianeta, potremmo estrarre composti utili, come acqua e metano. E se scopriamo una chimica lontana dall’equilibrio, vuol dire che forse lì c’è vita.

Se è presente un’ecologia a noi estranea, allora potrebbe essere pericolosa, come noi potremmo esserlo per lei.

Sulla Terra, durante la scoperta dell’America vennero introdotte malattie dagli europei colonizzatori, che a loro volta si ammalarono di patologie sconosciute e le “importarono” nel Vecchio Continente.

Nella Guerra dei mondi di Herbert George Wells, gli invasori da Marte furono fermati da un banale raffreddore. Pertanto gli atterraggi dovrebbero essere in prima battuta di robot e in seconda di esploratori avvolti in speciali tute protettive.

Tuttavia alcuni pericoli potrebbero essere subdoli e impiegare molto tempo prima di rivelarsi. Non abbiamo esperienza dell’incontro tra due biologie completamente differenti.

Perciò il pianeta più adatto in cui insediarsi dovrebbe essere privo di vita. I colonizzatori potrebbero importare la vita terrestre se le condizioni di quel pianeta fossero abbastanza simili a quelle terrestri.

Ciò significa un pianeta incluso perlomeno entro la “zona abitabile”, la distanza da una stella dove l’acqua è allo stato liquido. Il suolo e l’acqua sono fattori essenziali, come pure un’atmosfera modificabile affinché si possa successivamente respirarla.

Potremmo persino ricreare l’evoluzione della vita sulla terra, a partire dall’introduzione della vita microbica. Per prosperare e sopravvivere in ambienti molto caldi, molto freddi oppure chimicamente rischiosi, potremmo introdurre i microbi “estremofili” che producono CO2 (anidride carbonica).

Al migliorare delle condizioni, potremmo aggiungere le piante, che grazie alla fotosintesi trasformeranno la CO2 in ossigeno. Questa è ingegneria planetaria, detta anche geoingegneria o terraforming.

Nel film Alien l’azienda di fantasia Weyland-Yutani è coinvolta nella “costruzione di mondi migliori”. In quella pellicola il terraforming richiede pochi decenni. In realtà ci vorrebbero almeno secoli. Ma una volta terraformato, il pianeta assumerebbe tutte le sembianze di una seconda Terra.



5. Quinto passo: stabilire il primo contatto

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Che fare se incontrassimo una civiltà aliena progredita?

In Star Trek usano un pratico manuale d’istruzioni in caso di contatto con razze aliene.

Stabilisce, fra l’altro, che una specie avanzata non interferisca con lo sviluppo di una civiltà aliena.

Nella realtà non esiste ancora un protocollo ufficiale che spieghi come gli umani dovrebbero affrontare una civiltà aliena, sempre che ne scoprissimo una. Ma il nostro primo incontro con loro forse non sarebbe molto diverso dai primi incontri tra culture differenti qui sulla terra.

Un esempio positivo è quello di Squanto, un nativo americano che insegnò ai coloni a catturare le anguille e a coltivare il mais.

Un esempio dal risvolto negativo è quello del capitano Cook, quando scese a terra in Nuova Zelanda: i Maori accolsero la sua brigata con la danza haka, che gli inglesi interpretarono come una minaccia. e aprirono il fuoco su di loro invece di offrirgli un ramo di palma, com’è nelle usanze di questo popolo.

Gli alieni potrebbero avere le sembianze di ragni o di serpenti, dai quali potremmo istintivamente ritrarci inorriditi, oppure assomigliare a uccelli o a pesci intelligenti: dovremmo pertanto abbandonare ogni idea preconcetta.

Qualunque dono portassimo dovrebbe essere prima decontaminato, senza considerare che per loro l’idea di regalo potrebbe essere sconosciuta. Insomma, nulla sarebbe scontato. Un obiettivo centrale di un protocollo da primo contatto è evitare che maturino ostilità.

In una cultura totalmente aliena potrebbe essere una situazione difficile da evitare: entreremmo nel loro territorio, un’azione considerata magari invadente o pericolosa, e indosseremo tute protettive per evitare di contaminarci a vicenda, un atteggiamento che essi potrebbero considerare minaccioso.

Una cosa è immaginabile: gli alieni avranno le nostre stesse curiosità. Che aspetto abbiamo? Rappresentiamo un pericolo? Come viviamo? e, forse più inquietante, che cosa potrebbero ottenere da noi?






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