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La storia vista con gli occhi di un gatto

Ci sono 600 milioni di gatti sul pianeta e non è una novità di questi ultimi anni.

Da sempre amati amici dei potenti, oltre che dei comuni mortali, hanno vissuto con noi e sono testimoni della nostra storia.

I gatti in principio impararono a frequentare le case dell’uomo (circa 9000 anni fa), per cacciare i topi che infestavano i raccolti.

Si trovavano maggiormente in zone come Grecia, Egitto e Persia, poi, con gli spostamenti dei mercanti avvennero anche gli spostamenti dei gatti verso l’Europa Occidentale.

Il gatto nell’antico Egitto fu adorato ed onorato. Era considerato un animale sacro ed era persino mummificato e messo sui sarcofagi delle famiglie più facoltose.

Nel tredicesimo secolo con lo sviluppo della superstizione, il gatto fu associato a riti pagani ed alla stregoneria.

La chiesa riuscì persino ad arrivare al punto di impiccare e torturare queste creature, con lo scopo di sconfiggere il maligno che, a parer loro, risiedeva nel gatto eretico.

Finalmente nel diciottesimo secolo si riprese ad ammirare il gatto per la sua bellezza. Molti poeti, scrittori di quel tempo rendevano omaggio al gatto consacrandolo in numerose loro opere.

Oggi nel nostro Paese vivono 60,7 milioni di persone e 7,5 milioni di gatti (dati 2014); in tutto il mondo ai 7,2 miliardi di esseri umani si affiancano 600 milioni di gatti.

Uomini e mici vivono insieme in ogni angolo del Pianeta da diverse migliaia di anni e questa convivenza ha cambiato la storia.

Oggi vi racconteremo brevemente la storia con gli occhi di un gatto.

1. Il primo gatto? 9500 anni fa

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Shillourokambos è il nome di una zona situata a 6 km a est di Limassol, nell’isola di Cipro.

Qui, nel 1992, un gruppo di archeologi francesi guidati da Jean-Denis Vigne ha portato alla luce i resti di un insediamento neolitico del IX millennio a.C.

In una tomba di 9500 anni fa (qui nella foto), i ricercatori hanno rinvenuto i resti di un micio di 8 mesi, seppellito accanto al padrone (una persona di circa 30 anni), tra una moltitudine di conchiglie, asce e altri oggetti rituali.

Lo scheletro del gattino è stato analizzato ed è risultato diverso dal gatto domestico attuale e più simile al gatto selvatico africano (Felis silvestris lybica).

Gli studiosi hanno quindi ipotizzato che quella di Cipro rappresenti la primissima fase del lungo processo di domesticazione del gatto.

Un’altra importante testimonianza archeologica proviene dalla Cina di 5500 anni fa.

Alcuni ricercatori cinesi hanno scavato i resti dell’antico villaggio agricolo di Quanhucun, nella regione dello Shaanxi (Cina nord-occidentale), e dall’analisi dei reperti, comprendenti molti scheletri di gatti, sono giunti a una conclusione:
in principio i gatti selvatici furono usati negli insediamenti agricoli per difendere le scorte di cereali dai topi, poi gli uomini selezionarono quelli più utili e socievoli.

Nel sito si sono trovati scheletri di gatti molto anziani che, verosimilmente, continuavano a essere nutriti dagli uomini. L’amore per i gatti era già nato.

2. Sacro agli Egizi

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Nell’antico Egitto il gatto, chiamato Myu o Miit, non solo era l’animale d’affezione più diffuso e amato, ma veniva anche onorato come sacro.

Il maschio lo era al sole e a Osiride, la femmina alla luna e a Iside.

Nel pantheon egizio c’era una divinità raffigurata con sembianze di donna e di gatta: era la dea Bastet, il cui culto si diffuse a partire dal 3000 a.C.

Potente simbolo di fecondità e forza, Bastet era anche la divinità protettrice della famiglia e della salute e per questo ogni bebè riceveva in dono un amuleto a forma di gatto che lo avrebbe protetto per la vita.

Durante la XXII dinastia, tra il 945 e il 715 a.C., il culto della dea Bastet si intensificò e si diffuse la convinzione che le gatte ne fossero l’incarnazione.

Si eressero templi dedicati alla dea-gatta, il più importante dei quali a Bubasti, lungo il Nilo; si cominciarono anche a mummificare i gatti e a seppellirli in fosse comuni nei templi.

Chi profanava la sacralità del gatto o lo uccideva volontariamente veniva condannato a morte; chi lo uccideva accidentalmente era costretto a pagare una salatissima multa.

Durante il regno di Tolomeo Aulete, come ci racconta lo storico Diodoro Siculo, un soldato romano travolse accidentalmente un gatto con il proprio cavallo; pur avendo implorato clemenza, l’uomo fu lapidato dalla folla, offesa e inferocita.

La legislazione egizia proibiva di portare i gatti fuori dal regno e imponeva, in caso di incendio, di salvare l’animale prima di ogni altro membro della famiglia.

Quando un gatto moriva, le persone di famiglia osservavano il lutto, come testimonia lo storico greco Erodoto:
«Gli abitanti di una casa dove un gatto è morto di morte naturale si radono le sopracciglia; i gatti vengono portati in edifici sacri dove vengono imbalsamati e sepolti con rito funebre nella città di Bubasti».

3. L’inferno nel Medioevo

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Nell’Europa medievale il gatto era considerato un animale diabolico, associato a malefici e ritenuto compagno delle streghe e come tale massacrato.

San Domenico rappresentava il demonio sotto forma di gatto e nel 1180 il teologo inglese Walter Map sostenne che nei riti satanici «il diavolo scende sotto le sembianze di un gatto nero tra i suoi devoti. Gli adoratori spengono la luce e lo cercano nel buio, e quando lo hanno trovato, lo baciano sotto la coda».

Papa Innocenzo VIII nel 1484 definì il gatto “l’animale preferito del diavolo e l’idolo di tutte le streghe”.

E anche degli eretici: tra le accuse mosse a questi ultimi e a coloro di cui la Chiesa, l’Inquisizione o i re si volevano disfare, c’era quella di adorare i gatti o di farli partecipare alle cerimonie religiose.

La credenza in un intimo legame tra il gatto e il diavolo era così radicata nella religiosità popolare che in molte città medievali si diffuse l’ailurofobia, la paura irrazionale nei confronti dei felini.

Non sorprende scoprire che i gatti, specie quelli neri, venissero catturati e bruciati vivi sulla pubblica piazza.

In Scozia fino al XVII secolo si celebrò il taghairm, un rito in cui i gatti venivano impalati vivi e poi arrostiti.

L’idea, viva ancora oggi, che i gatti neri portino sfortuna è un’eredità del Medioevo.

4. Accompagnarono in America Colombo

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  • Sulla Niña, sulla Pinta e sulla Santa Maria 􏰀
    I gatti parteciparono alla scoperta dell’America nel 1492. Cristoforo Colombo volle che su ognuna delle tre caravelle ci fossero due gatti, un maschio e una femmina, per difendere la cambusa e le scorte alimentari dall’attacco dei topi voraci.
  • Quella di Nostradamus ispirò Shakespeare 􏰀
    L’astrologo e chiaroveggente francese Michel de Nostredame, autore delle più celebri profezie della storia, aveva una gatta di nome Grimalkin (gattaccia grigia): altro di lei non sappiamo. Shakespeare, però, doveva saperne qualcosa di più e chiamò con lo stesso nome la gatta di una delle streghe del Macbeth.
  • Stella d’Egitto
    􏰀Nadjem (stella): così si chiamava l’amato gatto di Puimre, funzionario di basso livello dell’antico Egitto, vissuto durante il regno del faraone Tuthmosis III, tra 1479 e 1425 a.C. Quando il funzionario morì, la famiglia lo seppellì in una tomba fuori le mura della città di Tebe e volle ricordare il suo stretto legame con l’animale in un’iscrizione, giunta sino a noi.
  • Sentendosi perduta, Maria Antonietta salvò i suoi gatti
    􏰀Maria Antonietta, consorte di Luigi XVI che morirà sulla ghigliottina nel 1793, amava alla follia sei bellissimi gatti di razza angora, candidi come la neve e dolcissimi. Allo scoppio della Rivoluzione francese nel 1789, la sua ansia per la sorte dei mici crebbe al punto che li affidò a un amico in partenza per le Americhe. I gatti si salvarono, lei no.





5. I grandi li hanno sempre tanto amati

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  • Ottaviano Augusto (63 a.C.-14 d.C.): «La mia gatta dagli occhi gialli, la più intima amica della mia vecchiaia. È mia pari, così com’è pari agli dei, non mi teme e non se la prende con me. Com’è nobile e indipendente il suo spirito!». Queste parole sono state scritte nel 10 a.C. dal primo imperatore di Roma.
  • Cardinale Richelieu (1585-1642): Fu il primo ministro del re di Francia Luigi XIII e tra gli uomini più potenti e abili del Seicento. Adorava i gatti e se ne circondava: nel suo palazzo residenziale fece persino aprire una chatterie con personale esclusivo.
    I cronisti dell’epoca ci narrano che dormiva con loro, li nutriva a petto di pollo, lavorava alla scrivania e riceveva gli ambasciatori regalmente seduto con uno dei suoi mici sulle ginocchia, scegliendolo a turno. Quando morì ne lasciò ben quattordici tra persiani e angora, oltre a una montagna di soldi per il loro mantenimento.
  • Albert Schweitzer (1875-1965): «Ci sono solo due grandi rifugi dalle miserie della vita: la musica e i gatti». Parola di Albert Schweitzer, il grande medico e missionario tedesco, premio Nobel per la pace nel 1952.
    Appassionato di musica (fu un bravo organista e un eccellente interprete di Bach), il dottor Schweitzer fu un grande amante dei gatti.
    Sebbene mancino, imparò a scrivere le ricette mediche con la mano destra quando la sua amatissima micia Sizi prese l’abitudine di addormentarsi acciambellata sul braccio sinistro: il dottore le era così devoto da non pensare nemmeno di svegliarla.
  • Jack Kerouac (1922-1969): «Ho amato Tyke con tutto il mio cuore. Quando era un micetto, mi stava nel palmo di una mano, mi si addormentava addosso con la testina ciondolante e faceva le fusa per ore».
    A parlare così non è una romantica singorina d’altri tempi ma il poeta e scrittore statunitense “padre” più ribelle e anticonformista della Beat Generation: Jack Kerouac. Sappiamo che ebbe sempre molti gatti, ma Tyke, un grosso persiano calico, fu uno dei suoi più intensi amori.
  • Freddie Mercury (1946-1991): Fondatore e cantante dei Queen, gruppo rock inglese, è stato musicista e compositore di talento, tanto da entrare nella leggenda quando morì nel 1991.
    Personalità eccentrica e carismatica sul palco, nella vita privata Freddie Mercury fu un uomo dolce, riservato e sensibile. Passò la vita circondato da gatti, per lo più salvati dal gattile o dalla strada, che amava visceralmente e di cui soffriva la mancanza durante le lunghe tournée.
    Preoccupato all’idea che soffrissero per la sua assenza, cercava di parlare loro attraverso la cornetta del telefono, sperando di tranquillizzarli.








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