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Dieta mediterranea: la dieta più sana e più giusta

Mai come negli ultimi anni il cibo è diventato centrale nel dibattito pubblico.

Programmi tv su cucina e diete vanno in onda a tutte le ore del giorno e della notte.

L’alimentazione anima confronti, manifestazioni e festival, scatenando contese aspre.

Che dividono i vegani dagli onnivori, i favorevoli e i contrari a questa o quella tecnologia, chi ama il biologico e chi lo detesta e così via.

La scienza e la tecnologia possono contribuire, rendendo più efficace l’agricoltura o limitando l’impatto ambientale degli allevamenti.

Ma per vincere la sfida, tutti dobbiamo collaborare, riducendo gli sprechi, acquistando prodotti di stagione e, soprattutto, mangiando meno e meglio.

Gli esperti, su questo, danno un’indicazione chiara: la dieta migliore è quella mediterranea. Ci converrà ascoltarli, perché ciò che oggi fa bene alla nostra salute ci garantisce anche il futuro.

Eppure, da tempo ormai, neppure chi vive nel Paese che l’ha eletta a suo simbolo – ovvero, il nostro – la segue davvero: quel che la maggioranza degli italiani mangia oggi, nella migliore delle ipotesi, è solo un pallido tentativo di imitazione della vera dieta mediterranea.

 

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1. Napoli e dintorni

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Ma per scoprire in che cosa consiste questo regime alimentare dobbiamo fare un passo indietro.

A identificarne i principi e gli alimenti chiave fu infatti, nel secolo scorso, il fisiologo americano Ancel Keys (nella foto accanto), lo stesso che aveva inventato la celeberrima razione K (dall’iniziale del suo cognome) per fornire alle truppe americane un rancio equilibrato.

Nel 1951, Keys fu invitato in Italia a un convegno Fao e conobbe Gino Bergami, un fisiologo napoletano.

Discutendo con lui il cruccio dei medici al di là dell’oceano, ovvero gli infarti e ictus che parevano in crescita continua e inarrestabile, Keys rimase a dir poco sorpreso nello scoprire che a Napoli e dintorni di malattie cardiovascolari non si moriva quasi mai, fatta eccezione per le classi sociali più agiate.

Volle quindi vederci chiaro, e si stabilì a Pollica, nel Parco del Cilento, per studiare le abitudini degli abitanti e capire quale fosse il segreto che li rendeva così sani, convinto che alimentazione e stili di vita avessero buona parte del merito.

Si accorse così che l’infarto aveva a che fare con i livelli di colesterolo, ma soprattutto che la dieta dei locali era ben diversa da quella degli americani.

«Il grosso dell’alimentazione è costituito da pane, pasta e verdure locali», scriveva Keys nel suo primo lavoro sugli abitanti di Pollica.
«Carne, pesce, latte, formaggio e uova sono un lusso per questi uomini, che mangiano zucchero e patate in minime quantità e non usano mai il burro. Regolarmente consumano piccole quantità di formaggio e frutta».

 

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2. Stile di vita

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Eccola qua, la “vera” dieta mediterranea: per lo più a base di verdure e legumi del proprio orto (il vero chilometro zero, insomma) e cereali non raffinati, inclusi orzo, farro e simili.

La carne era per il pranzo della domenica; il pesce era quello che i pollichesi riuscivano a pescare in mare (quindi, soprattutto pesce azzurro come sardine o acciughe).

Il formaggio si preparava per poter conservare il latte in assenza di frigoriferi, le uova venivano dalle galline allevate in cortile, lo zucchero era un’eccezione. Nell’Italia rurale degli anni ’50 toccava guadagnarsi il cibo faticando nei campi.

Ecco perché la dieta mediterranea non è un elenco di alimenti, ma un concetto che abbraccia lo stile di vita: a tavola si portano i prodotti locali, procurati con lo sforzo quotidiano.

La differenza fra quell’alimentazione e la nostra è un po’ come quella che passa fra un gatto selvatico e uno domestico:
-il primo è magro, corre per trovarsi da mangiare e se è sazio non caccia, perché farlo comporta fatica;
- il secondo è sovrappeso, perché in casa trova croccantini a volontà, non deve sudare per averli e spesso li mangia per noia più che per fame.

Oggi apriamo il frigorifero e troviamo di tutto, i nostri nonni un maiale dovevano farselo bastare per un anno intero: non buttavano via niente e ci mangiavano in dieci o più persone.

 

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3. Cibi industriali e un vago ricordo

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  • Cibi industriali
    Ma quando abbiamo iniziato a “scollarci” dalla dieta della tradizione?
    In pratica, già mentre Keys studiava gli abitanti di Pollica.
    Nell’immediato dopoguerra non c’era più carestia ma il cibo era prodotto a livello domestico: è stato il periodo in cui mangiavamo meglio.
    Già negli anni ’50, però, è iniziata la produzione industriale degli alimenti, che ne ha aumentato la disponibilità, ma ha portato anche a un cambio deciso nella quantità e qualità.
    La gente ha iniziato a volere prodotti facili da preparare e conservare.
    Nelle città l’effetto è stato ben presto evidente, ma oggi perfino a Pollica chi vive sulla costa, più a contatto con il turismo, mangia meno mediterraneo di chi nell’entroterra ha vissuto una minore modernizzazione delle abitudini.
    E se questo capita in un territorio dove c’è il Museo della dieta mediterranea (a Pioppi, una frazione di Pollica), figuriamoci che cosa succede nel resto d’Italia.

 

 

  • Un vago ricordo
    Infatti, benché periodicamente emergano dati confortanti su aspettativa di vita e salute degli italiani (il Bloomberg Global Health Index ci piazza al primo posto al mondo, ben lontani da statunitensi o britannici), la distanza fra quel che mettiamo in tavola e i dettami della dieta mediterranea appare siderale.
    E non solo perché compriamo le zucchine al supermercato tutto l’anno, anziché crescerle in estate nell’orto.
    Ma soprattutto perché portiamo in tavola gli alimenti sbagliati: un’indagine condotta di recente su 15.000 italiani nell’ambito della campagna “Curare la salute” ha rivelato che solo tre su dieci mangiano le giuste quantità di verdura e uova, appena due su dieci la giusta quantità di frutta e latticini, e che solo uno su tre consuma pesce a sufficienza.
    Soprattutto, però, eccediamo con la carne: ne mangiamo infatti intorno agli 80 chili a testa all’anno, in pratica il maiale dei contadini che sfamava dieci persone oggi ce lo sbafiamo da soli.

 

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4. Troppo zucchero e Giapponesi virtuosi

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  • Troppo zucchero
    I legumi, fondamentali nella dieta dei nostri nonni, sono invece quasi scomparsi dalla tavola.
    Al bicchiere di vino al pasto si sono aggiunti superalcolici e bibite e soprattutto è arrivato lo zucchero. A palate.
    Gli zuccheri semplici dei dolci, quasi assenti nella dieta mediterranea vera, oggi sono onnipresenti: basti pensare al consumo di bibite.
    I bambini, sui quali il deragliamento da una sana alimentazione è ancora più rischioso perché compromette la salute di tutta la vita, sono “drogati” di zuccheri, il gradimento del dolce si è impennato rispetto al passato. Il paradosso?
    Oggi australiani, neozelandesi e indiani sono più aderenti di noi ai principi della dieta mediterranea.
    Questi dati si ritrovano anche nel Seven Countries Study, che ha seguito per decenni le abitudini alimentari e i destini di italiani, greci, finlandesi, olandesi, abitanti della ex Jugoslavia, statunitensi e giapponesi: dal 1960 al 1985 gli italiani, inizialmente virtuosi, hanno visto salire tutti gli indici di pericolo e di malattia, dalla pressione alta al diabete, dal colesterolo agli infarti.

 

  • Giapponesi virtuosi
    Gli unici a non andare alla deriva sono i morigerati giapponesi.
    Ma non è un caso: i componenti fondamentali della loro dieta sono i vegetali, cereali come il riso, pesce per le proteine.
    Pare che anche Keys apprezzasse la dieta nipponica, e Regimi alimentari diversi da quello mediterraneo possono andare benissimo. Infatti, ciò che conta sono i principi base: pochi grassi animali e zuccheri e carboidrati dai vegetali, che sono essenziali non solo perché contengono vitamine e antiossidanti, ma soprattutto perché “occupano” lo stomaco, impedendoci di mangiare troppo di altro.
    L’unico alimento solo mediterraneo con qualità eccezionali è l’olio d’oliva: ci sono pochi dubbi che sia meglio di qualsiasi altro olio o condimento.

 

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5. La dieta amica dell'ambiente e piatto unico

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  • La dieta amica dell'ambiente
    Le proteine possono arrivare da legumi, uova, pesce, in quantità moderata dai latticini: dipende anche da che cosa abbiamo a portata di mano.
    Per il giapponese sarà il sushi, per noi le uova di gallina.
    Il che sottolinea un’altra caratteristica della dieta mediterranea, cioè la sua sostenibilità: non solo perché prevedendo poca carne è più “leggera” per il pianeta, ma anche perché cibarsi di ciò che offre il territorio ha un impatto ambientale più ridotto.
    Lo ha sottolineato anche uno studio dell’International Foundation of Mediterranean Diet, secondo cui mangiare prodotti locali ha ricadute positive sull’economia del territorio e sulla biodiversità, poiché spesso si riscoprono prodotti dimenticati.
    Per esempio i grani antichi, con filiere produttive corte e che per le loro caratteristiche devono essere macinati a pietra, cosicché restano più integrali.
    Mangiare locale significa anche smettere di credere ai super-cibi esotici e capire che i mirtilli sono salutari come le bacche di Goji: nessun alimento da solo fa miracoli, ma perché scegliere un prodotto che da noi non c’è e ha caratteristiche molto simili a ciò che troviamo sotto casa?.

 

  • Piatto unico
    La dieta mediterranea, insomma, è una scelta di buon senso, non una semplice lista di alimenti.
    Fa bene perché ci riporta alle radici del rapporto fra uomo e cibo, perché al posto dei sughi pronti ci sprona a cercare un contadino nelle vicinanze, perché invece di riempire il carrello di prodotti in formato famiglia ci ricorda che dovremmo ascoltare di più i segnali di sazietà.
    Perché, è bene ricordarlo, i nostri nonni mangiavano più vegetali e meno carne, ma soprattutto mangiavano parecchio meno di noi: sono stati loro a inventare il piatto unico, i pasti con tante portate erano per le feste comandate. Un’eccezione, insomma, non certo la regola come oggi.

 

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